Due o tre consigli ad un giovane (forse) ermeneuta
troppo sensibile
Egregio prof. Vittorio Hösle,
il suo nome di battesimo è italiano, perciò spero che lei parli italiano. Perché, purtroppo, io non so il tedesco, né il russo. Ho avuto l'occasione di scorrere il suo ultimo libro Filosofia della crisi ecologica (che purtroppo non ho ancora trovato in libreria). Mi riprometto senz'altro di leggerlo attentamente, appena riuscirò a trovarlo e appena avrò un po' più di tempo. Trovo che sia una attività importante interrogarsi a fondo sulle ragioni e sulle conseguenze del nostro agire in quanto esseri ecologici. Per di più ora, che si colgono chiaramente alcune criticità del sistema Terra. Devo dire che ammiro la sua dottrina. Lei deve essere veramente colto.
A prima vista, però, ho il sospetto che lei abbia una visione deformata di questa macchina biologica chiamata, a questo stadio evolutivo, homo sapiens sapiens (o homo sapiens sapiens technologicus, come forse lei preferirebbe dire). Le attribuisce poteri propri di un Dio.
Effettivamente, se si stima, anche solo a grandi linee, la complessità della macchina cervello, si intuisce il motivo di questa sensazione di infinita onnipotenza. Ma avere una sensazione di infinita onnipotenza, non per questo vuol dire poter esercitare, nei fatti, infinita onnipotenza.
Si stima che un cervello umano abbia 1011 neuroni. Ciascuno di essi ha, mediamente, nell'ordine di 103 connessioni sinaptiche con altri neuroni, per un totale di 1014 connessioni. Come lei saprà meglio di me, le connessioni sinaptiche sono delle specie di regolatori dell'intensità di segnale che viene convogliato, di neurone in neurone, dagli organi sensori (occhi, orecchie, mani, papille gustative, ecc.) all'intricato reticolo neuronale del cervello e di lì agli organi attuatori (organi della fonazione, muscoli, ghiandole, ecc.). Servono a dare 'plasticità' alla attività cerebrale. Se supponessimo che l'intensità delle connessioni sinaptiche (e di conseguenza l'intensità del segnale che vi transita) possa variare con continuità, otterremmo, più o meno, la bellezza di (infinito)100,000,000,000,000 configurazioni sinaptiche diverse, cioè stati mentali possibili. Tuttavia le molecole hanno una, sia pur modesta, estensione spaziale finita. Perciò dobbiamo ridurre il numero di stati possibili. Se ci cauteliamo, e diciamo che per ogni connessione sinaptica distinguiamo solo 10 stati possibili e significativamente diversi tra loro, invece che infiniti, abbiamo comunque ancora la bellezza di 10100,000,000,000,000 stati mentali possibili diversi tra loro. Se supponiamo che la attività cerebrale complessiva di un essere umano (sia quella che produce il pensiero cosciente e inconscio, sia quella che regola le attività motorie, ghiandolari, ecc.) comporti la transizione da uno stato mentale ad un altro con una frequenza di 1020 volte al secondo, questo vorrebbe dire che, senza passare per lo stesso stato mentale più di una volta nella vita, ciascuno di noi esplora del proprio cervello, durante la propria vita, meno di 1030 stati mentali, al massimo. L'ipotesi di 1020 transizioni al secondo, per altro, è estremamente sovrastimata, dal momento che la modifica di una connessione sinaptica implica una sia pur minima reazione chimica dell'ordine di grandezza di una cellula nervosa, e comunque che coinvolge almeno alcuni atomi. Ciò implicherebbe una velocità di propagazione della reazione chimica superiore alla velocità della luce. Pensare più velocemente di così è proprio fisicamente impossibile. Infatti, si è misurato che un neurone emette impulsi di segnale a frequenze estremamente inferiori (tipicamente ad una frequenza nell'ordine dei 1000 impulsi al secondo). Pensi che una immagine cinematografica fa solo 24 transizioni al secondo.
Così, tutti gli stati mentali esplorati da tutti gli homo sapiens sapiens comparsi sulla terra da 100,000 anni a questa parte, sono meno di 1043, una frazione pari a 1099,999,999,999,957, supponendo che la popolazione mondiale sia sempre stata di 5.5 miliardi di individui. Cioè tutta la attività cerebrale di tutti gli uomini mai vissuti sulla Terra, compreso l'impulso nervoso per il più insignificante movimento di ciglia di un tizio vissuto 40,000 anni fa, ha esplorato solo l'equivalente di una piccolissima frazione dei possibili stati mentali di un solo cervello. Un'inezia. Perdersi lì in mezzo dev'essere facilissimo. E arrivare a dire stupidaggini irrilevanti, senza subire immediatamente la punizione dei fatti esterni alla attività cerebrale, possibilissimo. Chissà, forse tutta questa ridondanza è una specie di assicurazione contro le brutte pieghe che può prendere l'attività cerebrale e contro i danni che essa può causare a sé stessa.
Come si può intuire, la sensazione di infinita onnipotenza è del tutto giustificata dal numero veramente notevole di stati mentali possibili in un cervello umano. E il rischio che il cervello si disponga in stati mentali corrispondenti a visioni fuorvianti e ad allucinazioni dannose per l'organismo è molto alto. Fortunatamente, centinaia di milioni di anni di evoluzione degli organismi viventi hanno provveduto a spazzare via quegli individui che, in vena di esperimenti troppo arditi, non hanno sviluppato validi meccanismi di interdizione alle attività cerebrali letali, consentendo progressivamente solo alle attività cerebrali utili di venir praticate, o almeno solo a quelle non troppo dannose per l'organismo.
Comunque non si preoccupi eccessivamente delle catastrofi ecologiche provocate dalla dissennatezza umana. Ci penseranno molto presto nuovi virus e nuove popolazioni di batteri antibiotico-resistenti a moderare le velleità di un cervello inadeguato al resto dell'organismo a causa della sua superpotenza, se davvero questo cervello è così potente e la sua attività così dannosa. A tutto beneficio di qualche altro essere vivente più adeguato a quelle condizioni ambientali.
Provi a ridimensionare la sua visione mitica della macchina uomo, lasciando perdere, ipoteticamente e provvisoriamente, credute differenze di sostanzialità tra l'uomo e l'animale. Provi a guardare questa macchina uomo come non tanto diversa da un gorilla o da uno scimpanzé, con i quali condivide quasi tutto il patrimonio genetico, una struttura cerebrale e nervosa abbastanza simile, una anatomia e una fisiologia comparabili, e tratti somatici e comportamentali praticamente identici. Chi le dice, tra l'altro, che anche un gorilla non abbia degli imperativi categorici, solo perché non li scrive in una lingua a noi familiare?
Lei ha troppo poca fiducia in quel meccanismo di regolazione delle popolazioni di esseri viventi che tale Charles Darwin [1] ha messo in luce. Esso è noto come Teoria della evoluzione delle specie per mezzo della selezione naturale, detta anche, per brevità, Evoluzionismo. Le assicuro che è un bel congegno. Semplice e di provata efficacia. Pensi che funziona da diverse centinaia di milioni di anni. Certo, bisogna avere il coraggio di guardarlo con la necessaria radicalità e senza farsi fuorviare da deliri di onnipotenza.
E finalmente si metta il cuore in pace riguardo alla immoralità delle differenze (come riguardo ad ogni immoralità, in genere). Il meccanismo dell'evoluzione funziona così. Produce e accentua le differenze. Per farlo, si serve del caso e dell'energia del Sole, principalmente attraverso la fotosintesi clorofilliana, direttamente o indirettamente. La produzione di differenze e la sovrapproduzione di individui sono una specie di corollario di quel meccanismo.
Non soffra troppo per la eventuale estinzione del genere umano.
Tanto non ci può fare niente. Si tratta di un normale avvicendamento,
sui tempi lunghi. A meno che lei non abbia la pretesa di vedere
spegnersi il Sole.
Saluti.
Bruno Caudana
POST SCRIPTUM:
Da qualche mese ho provato anch'io a riflettere su problemi connessi all'etica della crisi ecologica. Purtroppo sono persona di scarse e distratte letture. E poi non posseggo il suo profondo background. Devo dire però che sono arrivato a posizioni, credo, radicalmente diverse dalle sue. Riconosco che le posizioni a cui sono arrivato non sono affatto consolatorie, e, soprattutto, non sono utilizzabili per legittimare il desiderare e l'agire. Ma hanno il pregio di funzionare meglio nel confronto con i fatti, e rischiano di essere comprensibili da chi abbia il coraggio di guardare sé stesso e il mondo circostante senza troppi pregiudizi.
Per esempio: aprendo a caso il suo libro (pag. 73 dell'edizione italiana, se non ricordo male) ho trovato una affermazione con la quale sono profondamente in disaccordo. Lei auspica una scienza più globale, mi pare, «[...] in una concezione della conoscenza dell'essere incentrata sull'idea del bene». Altrove, se non ho intravvisto male, lascia intendere una nostalgia di conoscenza dell'Assoluto. Francamente, le dirò, quel modo di pensare che lei espone, mi lascia un po' perplesso, se ho capito quello che lei intende dire.
Da qualche parte lei fa l'esempio del bambino come titolare del diritto alla vita, in quanto la negazione di questo diritto contravverrebbe persino alle nostre più rozze intuizioni di ciò che è giusto. Diritto alla vita che, secondo il solo diritto naturale moderno, basato sulla simmetria di rapporti tra titolari di interessi egoistici, non sarebbe esigibile. Cioè lei usa il soggettivo e intuitivo senso innato di giustizia (congiunto con la visione che lei ha degli esseri organici come esseri dotati di finalità interna più vicina della finalità esterna, propria degli esseri inorganici, al principio di autodeterminazione, e pertanto dotati di valore superiore [?] ), come criterio, a me oscurissimo, per affermare l'esistenza di una eticità naturale oggettiva. Sempre che io capisca il suo pensiero.
Intanto la sfido a distinguere, a scala molecolare, differenze tra l'organico e l'inorganico. Il criterio qual è? Il numero di atomi di carbonio? O forse il concetto di organico ha a che fare con complesse strutture di legami carbonio organizzati in sistema nervoso? Cosa intende per 'finalità'? Quale differenza intende rilevare tra 'finalità interna' e 'finalità esterna'? Cosa intende per 'autodeterminazione'? Forse un orologio travestito da usignolo meccanico, non si autodetermina. Ma anche un semplice congegno come un termostato, o la vaschetta per l'acqua del suo WC, invece si autodetermina, è dotato di sensibilità, ha una finalità [?]. Forse lei colloca la soglia dell'autodeterminazione nella riproduzione di sé? Ma anche i virus si riproducono. Anche certi esseri algoritmici artificiali, inizialmente identici, che girano su dei computer, e che non hanno nulla di organico, nel senso che sembra intendere lei, si riproducono e si differenziano autonomamente, arrivando, con il passare del tempo e nello spazio del computer, ad assumere ruoli di prede e predatori; in una parola, si specizzano.
Un feroce darwinista le obietterebbe che, con la sua conoscenza incentrata sull'idea del bene, lei non riesce a rendere conto di come mai, ad esempio, si commettano, abbastanza frequentemente, infanticidi dei propri figli (anche leciti, secondo il codice morale di alcune popolazioni di non so più quale foresta, dove gli alimenti non abbondano; e quasi leciti in Cina, dove, a causa delle consuetudini matrimoniali, la nascita di una femmina è un costo, a volte, insostenibile). Tutto ciò, nonostante l'esistenza di una norma di morale naturale che lo vieterebbe.
Sempre quel feroce darwinista le direbbe invece che, secondo lui, non esiste alcuna morale naturale. Semplicemente le direbbe che l'infanticidio potrebbe trattarsi di un esperimento del desiderio e dell'azione. Così le spiegherebbe che può accadere per puro caso che, nella testa di qualche umanoide, pur già gravato da una relativamente scarsa prolificità, si formi il desiderio di commettere infanticidio della propria progenie, magari in correlazione con la percezione di una inadeguata disponibilità di cibo. Le spiegherebbe anche, però, che se ciò accadesse nella totalità, o quasi totalità, dei casi, quegli individui umanoidi che manifestassero quel tipo di predilezione, avrebbero scarse probabilità di propagare quella attitudine nella loro progenie. Contrariamente, quegli altri individui a cui invece, per puro caso, fosse venuto in mente di fare l'esperimento di curare la propria prole e di attrezzarsi per procacciarsi più cibo, potrebbero avere più occasioni di propagare le proprie attitudini nei discendenti e così espandersi a scapito degli infanticidi; sempre che il cibo che essi sono in grado di procurarsi basti per tutti. In questo modo, le spiegherebbe anche che gli appartenenti alla così costituita tribù dei BUONI, durante ripetute sedute del consiglio degli anziani allietate da abbondanti fumate di certi funghi allucinogeni, possono aver elaborato, mediante una introspezione di se stessi, la teoria secondo cui esiste una morale naturale che sancisce il dovere di accudire i figli, pena l'ira di quel Dio terribile realmente apparso loro durante quelle fumate memorabili. Una tale morale naturale, ancorché irrilevante sul piano della conoscenza dell'essere, funzionerebbe da amplificatore della tribù, fino alla prima carestia inspiegabile, che sarebbe interpretata con un'altra teoria ad hoc.
Le trote invece, che pure appartengono al nobile dominio dell'organico, superiore all'inorganico (come direbbe lei), trovano congeniale generare molti discendenti per cibarsene. E io sono sicuro che, se fossi una trota che ha raggiunto la maturità sessuale (cioè se avessi raggiunto quella sfrenata capacità di generare prole, propria di una trota), avrei elaborato una raffinatissima teoria circa la naturale moralità, anzi l'imperativo categorico, dell'azzannare la propria progenie tròtide.
Per esempio. Comincerei con il considerare la generazione di avannotti come una estrinsecazione delle mie facoltà corporee finalizzata alla cattura di quelle minuscole particelle di cibo trasportate dall'acqua che sono troppo piccole perché valga la pena che io muova la mole del mio corpo di trota possente per raggiungerle, anche se i morsi della fame mi attanagliassero. Quelle minuscole particelle di cibo, infatti, non compenserebbero neppure il dispendio di energia necessario per impadronirmene. Delegando invece a queste mie appendici corporee, di mole molto più modesta, il compito di impadronirsene e di accumularle per mio conto, e riservandomi la facoltà di inseguirle e azzannarle all'occorrenza, avrei realizzato una interessante razionalizzazione dello sfruttamento delle risorse alimentari che altrimenti resterebbero inutilizzate dalle trote del torrente. Inoltre, con questo ragionamento, mostrerei di aver sviluppato la capacità di fare un bilancio energetico della mia attività. Questo fatto comincerebbe ad essere un barlume di quel principio di conservazione dell'energia così importante nella fisica, e segnerebbe l'inizio della mia attività speculativa astratta. Memore delle mie esplorazioni alla ricerca di cibo, comincerei a farmi domande su dove finisca il torrente. Se finisca oltre la cascata che non sono riuscita a superare, oppure se prosegua indefinitamente. Per analogia, potrei cominciare a chiedermi se questo sia l'unico torrente possibile, oppure se esistano, sostanziati altrove, altri esemplari dell'idea di torrente. Comincerei a farmi domande sulla mia origine, e notando che, dopo una piena, il numero delle mie consimili, che occupano la stessa pozza d'acqua, è aumentato, capirei che l'origine del torrente coincide con la fonte generatrice della vita tròtide. Ammirando, con il mio intelletto, la potenza del mio intelletto capace di spaziare oltre l'universo aquatico circostante, comincerei a pormi domande sulla legittimità del mio agire, in particolare nei riguardi di quelle larve, da me emanate, che hanno una vaga somiglianza con le mie fattezze, e sembrano dotate di una certa sensibilità e autonomia decisionale, ma sono più piccole della mia pinna ventrale destra, e comunque non posseggono tutta la mia articolata astuzia nell'eludere le insidie contenute nell'esca del pescatore. Ne concluderei che l'universo torrentizio non contiene essere razionale più sofisticato di quelli appartenenti alla specie salmo tructa, notando la differenza sostanziale tra l'essere tròtide e l'essere animale. Questo, congiunto al ragionamento sulla razionale amministrazione delle risorse alimentari, finalizzata al sostentamento universale di tutte le trote del torrente, mi porterebbe fatalmente alla formulazione dell'imperativo categorico della azzannabilità della progenie tròtide.
Come può vedere già da questo modesto controesempio, la morale naturale prodotta dalla «concezione della conoscenza dell'essere incentrata sull'idea del bene» ha almeno due formulazioni tra loro contrastanti: quella del prof. Vittorio Hösle e quella della trota. Ciascuna delle quali fortemente condizionata dalle rispettive capacità riproduttive e venatorie.
Mettiamola così: Supponiamo che fosse in uso una scienza più globale (una di quelle che, immagino, piacerebbero a lei). Supponiamo, inoltre, che essa affermasse una sorta di imperativo categorico della inalterabilità del patrimonio genetico umano trasmissibile alla discendenza, pena il rischio di annientamento del genere umano attuale. Supponiamo, infine, che attuare una alterazione di patrimonio genetico di quel tipo fosse possibile, ma dovesse comportare una serie di manipolazioni intenzionali che implicassero il sacrificio della vita di un certo numero di cavie umane. Ebbene, io non scommetterei neanche il biglietto usato di un film, se l'esito della scommessa dipendesse dal risultato della previsione che quel principio, nei fatti, sia soggetto a venir violato o meno da qualcuno sulla Terra.
Mentre, se qualcuno mi dicesse, con argomentazioni scientifiche e non metafisiche, di aver davvero inventato una macchina ben costruita che fa scattare una mannaia sempre e solo quando, nel sistema solare, alla scala dei vertebrati (centimetri o metri), accade un fatto che viola il principio di conservazione della massa-energia (o che viola il secondo principio della termodinamica, o ambedue, a sua scelta), io ci metterei la testa, sotto quella mannaia, sicuro di morire tranquillamente di vecchiaia. E, le assicuro, non ho la vocazione al suicidio, o al rischio estremo.
Eppure la elaborazione del principio di conservazione della massa-energia, come pure del secondo principio della termodinamica, sono solo due dei risultati di un metodo di indagine dei fatti che ha un concetto estremamente debole di 'verità di una teoria', e cioè: una teoria è vera provvisoriamente, fin tanto che non viene smentita anche da un solo fatto. Quel metodo di indagine, inoltre, di ciò di cui non può parlare, tace, qualche volta.
Le consiglierei, prima di proclamare il fallimento del pensiero scientifico così come si è evoluto fino ad oggi e prima di auspicare un'altra scienza, di riflettere se non sia il caso di rivedere certe, a mio parere, troppo frettolose presunzioni di razionalità e ragionevolezza nel parlare di questioni etiche; o se addirittura non sia il caso di rivedere in quali termini si possa parlare di etica. In altre parole, le consiglierei di fare un approfondito esame dei confini di ciò che entra nel dominio dell'etica. Quei confini potrebbero anche delimitare uno spazio vuoto.
Non so lei, ma io ho la netta impressione che, ad esempio, i concetti di Bene e Male non siano altro che astrazioni improprie, o usate impropriamente, della sensazione soggettiva di piacere e di dolore. Inoltre, in base a quale potere attribuisco ad altri una esperienza completamente introspettiva come la sensazione di piacere e di dolore, fisicamente riferibile solo allo stato del mio sistema nervoso? O in base a quale potere consiglio ad altri con quali tecniche e azioni cercare o evitare quelle sensazioni, posto pure che il piacere di un altro non sia conflittuale e inconciliabile con il mio? E se è conflittuale e inconciliabile, cosa posso immaginare che avvenga, se non l'attivazione dei conflitti fino al punto di equilibrio?
Mi creda, quel tipo di «concezione della conoscenza dell'essere incentrata sull'idea del bene» che le è cara, ha già dato ampia prova di inadeguatezza nel passato, fallendo clamorosamente, a mio parere, proprio sul piano della conoscenza dell'essere (sempre che lei consideri i fatti come pertinenti all'essere), oltre che sul piano della realizzazione di quel Bene da essa stessa definito. C'è chi chiama quella concezione 'moralismo integralista inconsistente' o 'neo-oscurantismo'.
Se le interessa, le allego alcune cose che ho pensato intorno
a questi temi, da dilettante.
Bruno Caudana
[1] Charles
Robert Darwin (1809-1882), naturalista inglese del secolo
scorso, a lei probabilmente sconosciuto. Egli è stato uno
dei principali autori di una teoria sugli esseri viventi nota
come Evoluzionismo, ed è stato uno dei principali
artefici di un importante cambiamento di paradigma scientifico,
come a lei piace dire, citando Th. S. Kuhn. Il testo principale
che contiene le enunciazioni fondamentali dell'evoluzionismo si
intitola: On the Origin of Species by means of Natural Selection,
or the Preservation of Favoured Races in the Struggle for Life,
meglio noto come The Origin of Species (London, 1859).
A seguito delle sue considerazioni
sugli esseri viventi e il loro ambiente, sono state riviste molte
importanti questioni riguardanti il pianeta Terra e gli esseri
viventi che lo abitano. Tra le altre, vorrei ricordare: la revisione
della età della Terra rispetto a quanto precedentemente
calcolato sulla base della esegesi biblica; la revisione del concetto
di fissità delle specie animali e vegetali; la revisione
delle teorie circa l'origine dell'uomo; nonché la revisione
di alcuni importanti concetti filosofici, come il concetto di
finalità dell'ordine del creato e del progetto della
creazione, ecc.
Oltre a questo, è importante
dire che la concezione darwinista della natura ha profondamente
influenzato tutta la paleontologia e la biologia da allora in
poi. Essa ha permesso, tra le altre cose, che si creassero le
condizioni perché venisse scoperto fisicamente quel meccanismo
di trasmissione dei caratteri ereditari, comunemente noto come
DNA. Come è noto, il DNA (la stuttura della cui molecola
fu scoperta da J. Watson e F. Crick nel 1953) regola il funzionamento
di tutti gli esseri viventi. Si può dire, in un certo senso,
che la sua esistenza è stata prefigurata teoricamente da
Darwin con quasi 100 anni di anticipo.
In estrema sintesi, il pensiero
evoluzionista può essere riassunto così. Gli esseri
viventi si riproducono dando origine ad esseri simili, ma non
identici. Il loro potenziale riproduttivo eccede il numero degli
individui che sopravvivono. Sopravvivono e lasciano più
discendenti gli individui più adatti alle condizioni ambientali
che si trovano ad affrontare. Condizioni ambientali diverse favoriscono
la propagazione di individui con caratteristiche diverse. In questo
modo si trova sempre qualcuno che occupa gli spazi che offrono
meno resistenza. Inoltre, questo meccanismo spiega la continua
produzione di differenze.
In generale, il darwinismo non è
accettato volentieri da chi abbia, in qualche modo, una visione
religiosa del mondo.
10 Marzo 1994 [ Back to Main Page ]
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