Lo spazio del guerrigliero culturale
FAC(I)E
Il nome che abbiamo scelto per la rubrica culturale di Samisdat necessita di qualche spiegazione: face è un’antica e nobile parola della lingua italiana, di quelle, e sono molte, ormai desuete, non solo nel linguaggio comune, ma di cui probabilmente molte persone cosiddette colte non capirebbero il significato, significa fiaccola, torcia; e una fiaccola, una luce nelle tenebre, un punto di riferimento per i molti viandanti smarriti, è precisamente ciò che intendiamo tenere vivo. Il termine facie (o facies) appartiene ad un linguaggio più tecnico, quello dell’archeologia, indica un orizzonte archeologico, l’insieme dei reperti che appartengono ad uno stesso strato e quindi ad una stessa epoca, ed identificano una determinata cultura. Oggi molti si illudono di non dipendere dal passato, ma questa non è che la prima di tutte le illusioni moderne, credono di poter irridere a tutte le idee "retrograde" dei loro antenati: patria, onore, tradizione, tutte cose che, in definitiva esprimevano il senso di appartenere ad una comunità vivente ed il cui divenire nel tempo travalica la storia delle singole generazioni, e questo oblio è stato chiamato progresso, ma il progresso, se ve n’è uno, può avvenire soltanto nella tradizione, altrimenti ogni generazione dovrebbe inventare daccapo il fuoco e la ruota. In favore di queste idee desuete e rinnegate noi vogliamo spezzare una lancia, di più, impugnare una spada.
"Fac(i)e" esprime compiutamente in una sola parola il nostro programma, ma ambiremmo a non farla da soli. I vostri contributi, anche critici, come per tutto Samisdat, saranno bene accetti.
Urla nel silenzio
Questa volta parliamo di cinema, ma lo faremo in una maniera un po’ inconsueta, quella che vi accingete a leggere non è una recensione. Mussolini diceva, e la sua frase era riportata nel logo dell’Istituto LUCE, che la cinematografia è l’arma più forte. E’ vero? Forse ai suoi tempi era senz’altro così, oggi lo è molto meno, od almeno la cinematografia non è che un’arma in un arsenale di media molto più complesso ed articolato, che comprende in primo luogo la televisione, poi la pubblicità televisiva o sulla carta stampata, il filtro o la cassa di risonanza rappresentati da recensioni, spot e trailer e, cosa non meno importante, i meccanismi della distribuzione dei film nelle sale cinematografiche, l’ultima istanza a decidere se, come e quando un film raggiungerà il pubblico.
Tutte queste considerazioni mi sono venute alla mente osservando alla televisione il trailer di Kundun, l’ultima fatica di Martin Scorsese. Dentro di me ero pronto a scommettere che tra il grosso nome di uno dei registi più affermati e l’apparato produttivo hollywoodiano da una parte, il muro di gomma che circonda in Italia tutto ciò che possa essere sgradito alla sinistra e gli impedisce di raggiungere il grosso pubblico dall’altra, sarebbe stato il secondo a spuntarla e questo sebbene stiamo attraversando un periodo in cui la cinematografia di soggetto orientale incontra i gusti del pubblico, basterebbe menzionare Il piccolo Buddha, Sette anni in Tibet, La città della gioia, L’impero del sole. Ero pronto a scommettere che Kundun non avrebbe nemmeno raggiunto le sale cinematografiche, o sarebbe stato oggetto di una programmazione frettolosa in alcune di esse come una pellicola d’essai. Per ora, mi sembra di aver avuto ragione, nonostante il richiamo del nome di Scorsese, la pellicola non si è vista proprio in giro. Cosa contiene questo film di tanto scandaloso, di tanto sconvolgente che potrebbe traumatizzare l’ingenuo pubblico italiano, che una censura di fatto vorrebbe portare per manina come se si trattasse di eterni bambini da non mettere a contatto con certe verità sgradevoli? E’ molto semplice ed evidente: si tratta di un film anticomunista, cioè un film che dice la verità, racconta i fatti.
Kundun, per chi non lo sapesse, è il nome dell’attuale Dalai Lama, ed il film ha l’immenso torto di rievocare la verità storica, l’invasione cinese del Tibet, l’aggressione comunista contro un popolo pacifico ed inerme, con il prevedibile contorno di orrori e massacri. Caso strano, come già il vecchio comunismo che esisteva oltre la Cortina di Ferro, anche il "nuovo" comunismo targato Ulivo ha bisogno dell’ignoranza e della menzogna per prosperare.
Chi non ha la memoria corta, forse ricorderà l’analoga cortina di silenzio che qualche anno fa fece passare praticamente inosservato al grosso pubblico uno dei film hollywoodiani più amari, disperati, splendidi sotto ogni punto di vista, Urla dal silenzio che rievocava attraverso la storia vera e documentata di uno dei pochi sopravvissuti che erano riusciti a sottrarsi a quell’inferno, le atrocità compiute dai khmer rossi in Cambogia, un’altra tragedia dimenticata e minimizzata perfino dai libri di testo scolastici. In tre anni, in quel disgraziato paese, i comunisti riuscirono a massacrare tre milioni di persone, un terzo dell’intera popolazione, è probabile che se la tirannide comunista si fosse prolungata per un paio di lustri, non sarebbe rimasto un cambogiano vivo.
Nello stesso periodo in cui le Urla dal silenzio veniva per l’appunto condannate a restare nel silenzio, un mediocre filmetto, una patacca, come può testimoniare chiunque abbia avuto la ventura di vederlo, ma che aveva l’incomparabile pregio di assumere un atteggiamento denigratorio verso l’intervento americano nel Vietnam, veniva esaltato come un capolavoro della cinematografia mondiale. Sto parlando, se non lo avete capito, di Platoon di Oliver Stone.
La carriera cinematografica di Stone è una di quelle che mi piacerebbe poter studiare da vicino, assieme a quella di un altro regista, Spike Lee, che è riuscito a diventare un "grande" di Hollywood con un solo film, Malcom X, in cui è riuscito a far passare per un eroe quello che era, oggi la cosa è provata, un terrorista sul libro paga del KGB. Dopo Platoon, forse l’unico film di rilievo di Oliver Stone è stato JFK dedicato all’assassinio di John Kennedy, un film mon molto riuscito, lungo, pesante, noioso, sebbene si avvalga di Kevin Costner indubbiamente più spento di quando ballava coi lupi.
Bisogna ammettere che la parte propriamente giornalistica di questo film è svolta con una certa accuratezza e non manca di mettere in luce la personalità contorta ed i particolari della vita di Lee Harwey Oswald, l’assassino del presidente Kennedy che tra l’altro era vissuto per anni in Unione Sovietica, aveva sposato una ragazza russa ed aveva certamente contatti con i servizi segreti cubani. (Stone si guarda bene dal menzionarlo, ma poco tempo prima dell’assassinio di Kennedy, era da poco fallito un attentato della CIA contro Fidel Castro e che l’uccisione del presidente degli Stati Uniti fosse una ritorsione cubana non è un’ipotesi affatto inattendibile), ma l’effetto complessivo del film suggerisce che dietro l’assassino vi fosse un complotto della CIA, è un ben calcolato esempio di quella che i maestri di Stone oltre la Cortina di Ferro chiamavano disinformazja.
Oggi i presunti ex comunisti cercano di accaparrarsi ad ogni costo il presidente più amato nella storia degli Stati Uniti, vedendolo come il modello di quella sinistra liberal (ammesso che sia mai esistita una cosa del genere) per la quale vorrebbero spacciarsi, ma quando John Kennedy era vivo, le loro opinioni in proposito erano assai diverse. Non era egli l’uomo della crisi dei missili, l’uomo che aveva rischiato un conflitto nucleare per impedire ai sovietici di installare a Cuba una base munita di testate atomiche con le quali avrebbero potuto minacciare buona parte degli Stati Uniti e del Centro America? Non era egli il presidente che aveva deciso l’intervento militare nel Vietnam, comprendendo che i progressi comunisti nel Sud est asiatico avrebbero compromesso non solo gli interessi economici e strategici americani in quest’area, ma soprattutto il prestigio internazionale degli Stati Uniti, legato all’impegno di bloccare la minaccia comunista contro i paesi liberi sempre e dovunque?
(La guerra del Vietnam è un capitolo di storia recente tutto da riscrivere, quanti ad esempio sanno che i leggendari Vietcong, i guerriglieri filocomunisti sudvietnamiti non esistevano proprio? Il giorno stesso della caduta di Hanoi i Vietcong scomparvero come neve al sole: questo nome era soltanto un’etichetta che si erano dati i reparti dell’esercito del Nord per travestire da "guerra di liberazione" l’aggressione contro il Vietnam meridionale).
Oggi avviene che ad esempio Walter Veltroni, vicepresidente del Consiglio e vicesegretario del PDS non perde occasione di ripetere è "un kennediano", ed allora i casi sono due: o si tratta di una panzana, oppure cosa ci facesse un kennediano nel PCI e cosa ci faccia nel PDS, è una cosa che sfida la comprensione umana.
Tornando al discorso cinematografico, se neppure le maxi – produzioni hollywoodiane riescono ad arrivare sui nostri schermi senza passare il vaglio di una censura di fatto terribilmente efficace, riuscite ad immaginare quali siano le possibilità di circolazione di una produzione di casa nostra, che per di più va a toccare il mito più sacro della nomenklatura nostrana, quello della "resistenza"? Praticamente nulle, è ovvio, per quanto storicamente corretto ed importante sia il discorso che viene a fare, ed in questo limbo è venuto a cadere uno dei più bei film italiani dell’ultimo decennio, Porzus, che ha il torto di raccontare senza veli uno dei più crudi episodi della nostra guerra civile, il massacro dei partigiani non comunisti della brigata Osoppo da parte dei comunisti della sedicente brigata Garibaldi, avvenuto appunto nella località friulana di Porzus, in un quadro politico che doveva prefigurare l’annessione del Friuli alla Jugoslavia.
Anche in campo cinematografico come altrove, vediamo all’opera il solito apparato di travisamenti, falsificazioni, censure in cui siamo ormai abituati a riconoscere la mano della sinistra, ma ricordiamo il vecchio detto: la verità alla fine riesce sempre a sopravvivere a tutti i suoi nemici.
Filmografia:
Kundun, regia di Martin Scorsese, 1998.
Urla dal silenzio, regia di Roland Toffer, 1985.
Platoon, regia di Oliver Stone, 1986.
Malcom X, regia di Spike Lee, 1993.
JFK, regia di Oliver Stone, 1992.
Porzus, regia di Renzo Martinelli, 1997.
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