Quadrimestrale di cultura, d'attualità, e d'informazione editoriale. - 10 Febbraio 1997
Direttore: Piergiorgio Motter - Direttore Responsabile: Valter Paoli
Il periodico, libero strumento di confronto, è aperto a tutti i lettori su problemi della Val Rendena riguardanti l'ambiente, la società, la storia, la letteratura, le tradizioni, l'arte.
Collaboratori
Editoriale.
Il necessario confronto.
Per un periodico che (oltre alla scontata cronaca) voglia offrire ai lettori un'adeguata gamma di proposte culturali, il pericolo maggiore - nell'esigente quanto generica domanda odierna - è rappresentato da un facile e spesso inevitabile scadimento su temi e su ragguagli del solo Presente: quel Presente che sta, purtroppo devalorizzando e livellando tanta parte dell'attuale carta stampata.
La carica stimolante invece d'una pubblicazione, capace d'ovviare a una simile routine, deve - e dovrà sempre di più - passare attraverso il continuo accostamento e il necessario confronto dei propri esiti con gli esiti che hanno fatto la storia e sono stati la gloria del nostro passato, remoto o recente che sia.
Nessuna moderna promozione di cultura, infatti, potrà incidere, e men che meno lasciare il segno, nella formazione e nella crescita d'una società "multimediale" qual è la nostra, se non saprà abitualmente raffrontarsi, ed ancor più competere, con le esperienze conoscitive e creative delle epoche trascorse, ovvero sia con le esperienze uscite intatte dalle inesorabili decantazioni del tempo.
"Rendena dieci" - a dire del nuovo numero - anche questa volta ha saputo tenere fede a un tale convincimento, non perdendo il tricentenario della nascita d'un grande Caderzonese, don Carlo Mosca (1696-1772), il predicatore trentino più celebre del secolo decimottavo.
Con la rievocazione sia della vita che dell'opera del rinomato oratore sacro, non è stata dimenticata la scomparsa (quanto mai accompagnata da unanime compianto) d'uno degli artisti "rendenesi" più singolari e amati, il pittore Sergio Trenti, al quale profonde sofferenze e segreti tormenti scandirono, talora in modo tragico, gli ultimi anni dell'esistenza.
Nè è mancato - tra i doverosi pensieri - il ricordo d'un altro esimio cultore d'arte, tòltoci avanti tempo, Silvio Tardivo, che ha saputo servire anche con la preziosità della parola la "sua" Pinzolo; e ancora di Giovanni Cristini (egli pure deceduto) il quale, appena qualche mese fa, aveva onorato di due suoi "inni alla bellezza delle montagne" il nostro periodico.
Nella luce e nell'orgoglio di queste elette figure - e attraverso un ventaglio d'altri puntuali articoli - "Rendena dieci" ha inteso dare una volta di più ai suoi lettori, con il normale apporto informativo, quella scelta di testi e di argomenti che fossero al tempo stesso sicuri parametri di valutazione e di giudizio in un momento in cui troppe "cose" vengono fatte credere "cultura".
Piergiorgio Motter Editore
Pelugo, 12 febbraio 1997.
La scomparsa di Sergio Trenti, per quanto dolorosamente prevedibile, ha lasciato il vuoto che lasciano i poeti quando abbandonano il consorzio umano.
Il pittore di Pinzolo era veramente un poeta, nel senso più profondo del termine e cioè nel senso profetico d'interprete "maledetto" della nostra umana condizione, di svelatore di abissi e di orizzonti normalmente invisibili.
Il suo lavoro creativo ha sempre ruotato attorno alla figura umana, cercando di portarne alla luce, letteralmente, il mistero. La figura rappresentata da Trenti, al di là del particolare contenuto nel quale è inserita, al di là insomma del contesto tematico, è sempre una figura colma, una figura che contiene il mondo sia nella sua sovrabbondanza che nella sua alienazione. Ci troviamo di fronte ad una pittura imbevuta di ogni umore esistenziale, che gronda soprattutto lacrime e sangue, fatica di vivere e sperare, resistenza fisica e spirituale insieme, per non soccombere sotto i colpi impietosi del maglio della violenza, dell'ingiustizia, della sopraffazione.
Sergio Trenti ha dipinto proprio per questo quasi sempre la solitudine trasformandola in un canto ossessivo, dal quale sprigionare tutti gli echi possibili. L'uomo solo della sua pittura è quello della sua vita: cammina instancabile offrendo agli sguardi che lo circondano la propria anima nuda.
Questo uomo solo contiene in sé tutti gli uomini, tutto il mondo; gli spazi che attraversa vengono dilatati dalla sua umanità (sprofondata, a volte, nel dolore e nell'angoscia, mai comunque sconfitta) e i colori che rappresentano figure e contesto sono la lingua del suo patire.
Sergio Trenti ha attraversato tanti luoghi dell'esperienza umana: la fatica, il lavoro, la sconfitta, il desiderio, la speranza, l'ingenuità, la generosità, la fede. Nel suo viaggio lungo e tormentato è stato fedele a se stesso fino alla macerazione, non ha mai ceduto di fronte al severo vaglio del suo ideale di vita e di lavoro e se ha ceduto alle sue umane debolezze questo non gli ha mai impedito di tenere alta la sua coerenza morale d'artista.
Quando ho avuto la fortuna di incontrarlo mi sono sentito subito "tirato in mezzo", appunto, ad un intrico spinoso di debolezza e di moralità, che non riuscivo a capire; solo davanti alle sue opere, scorrendo con lo sguardo dalla "più vecchia" alla "più giovane" ho avvertito la forza di un "miracolo" creativo. Si trattava e si tratta del "miracolo" che si compie ogni volta con il gesto artistico autentico, vero cioè nell'ispirazione e nel segno, nell'espressione.
Sergio Trenti ha estratto dalla sua sofferenza, dalla sua solitudine la luce di questo miracolo e ce l'ha consegnata non tanto ad memoriam, quanto per farla vivere con la stessa intensità nella nostra vita e in quella delle generazioni future.
19 gennaio 1997.
Morti senza colpe1).
Mi resi conto, durante una recente discussione sorta sulle cause che provocarono la morte di quei sette fanciulli che percorrevano un sentiero del Brenta, che le opinioni espresse dai miei conoscenti non sempre erano attinte alla realtà della vita. Ebbi, così, nuovamente conferma che ogni vicenda umana originava molteplici verità ovvero solo quelle certezze nelle quali, ognuno di noi, cerca il proprio credo. Tuttavia, esisteva una realtà essenziale; nessuno dei miei interlocutori visse, in diretta con la morte, quelle strazianti ore d'angoscia e di speranza. Quanto segue, è la rigorosa ricostruzione di quel tragico evento e delle successive conseguenze giudiziarie che perseguitarono un sacerdote poi riconosciuto innocente.
Per caso, mi trovai all'altezza della località Fontanella di Madonna di Campiglio quando, osservando il Brenta, vidi quell'insolito firmamento che si stava formando. Erano le ore 13 del 17 luglio 1991. Nel cielo plumbeo, improvvisamente chiazzato da cupe e rosseggianti striature, le nuvole, foriere di ferali conseguenze, si misero a ribollire; poi, tuonando e ricorrendosi su per la Valle di Brenta, disegnarono l'apocalisse. L'uragano scaricò ciottoli di grandine e per oltre due ore, imperversò e diluviò sull'alta Valle di Brenta. Sempre alle ore 13 una comitiva di ragazzi, guidata dal sacerdote don Giuseppe Basini, stava percorrendo il sentiero Bogani in direzione del rifugio Casinei. Giunti in prossimità di una lingua di neve che ancora ricopriva una fenditura di deiezione, inaspettatamente si trovarono nel centro di quel ciclone. Colpiti e feriti da una fitta sassaiola di grandine, accecati dai bagliori dei lampi e sballottati da un vento impetuoso, pensarono di raggiungere una vicina grotta. Non poterono proseguire perché la pendenza del declive innevato, superiore al quarantacinque per cento, e l'attraversamento su una delle due tracce segnate sulla neve, già ricoperte dalla grandine, avrebbe reso suicida ogni tentativo di passaggio. Cercarono quindi riparo sotto una parvenza di tetto roccioso che sovrastava il sentiero mentre, alcuni di loro, entrarono in un anfratto naturale formatosi fra la neve e la dolomia. "Dopo qualche attimo", come testimoniò il giovane Guareschi Cristiano, "sentirono un rumore cupo, indi furono investiti e poi coperti da una slavina di detriti e grandine".
Il Guareschi Cristiano, miracolosamente illeso, raggiunse il rifugio Brentei dove raccontò l'accaduto. Claudio Detassis avvertì il soccorso alpino indi la stazione carabinieri di Madonna di Campiglio. In pochi minuti mobilitammo numerosi volontari. Due carabinieri, che assieme alla guida alpina Renzo Springhetti si trovavano all'altezza del rifugio Casinei, di corsa raggiunsero la località dell'evento. Occorreva far presto, ma il nubifragio che stava imperversando su tutta la zona, impediva il volo degli elicotteri e quindi il trasporto, in quota, dei soccorritori. Trascorsero alcuni minuti. Alle ore 13,47, nonostante che le condizioni atmosferiche fossero proibitive, il pilota Giuseppe Simonetti decise un'ascesa che la ragione definiva impossibile. L'elicottero si alzò in volo e come una piuma trasportata dal vento, si mise a gareggiare contro gli elementi della natura. Sembrò che cadesse. Trepidanti, seguimmo le sue evoluzioni; poi lo vedemmo scomparire in quella bruma violacea che oscurava il cielo.
I continui dei lampi, che saettando fra le pareti rimbombavano di roccia in roccia, con la loro luce abbagliante illuminarono lo spettrale dirupo dove si svolgeva il soccorso. Inoltre, il fragore causato dai tuoni, l'ululato del vento e l'impetuoso scrosciare della pioggia, concorsero a rendere ancora più crudele quella scena dove la vita stava cedendo alla morte. Il fanciullo, che imprigionato in quel gelido cunicolo chiedeva a Daniele Angeli: "Fammi respirare", era ancora aggrappato alla sua vita. E Daniele, che per non ferire il ragazzo usò le mani e non il piccone, disperatamente si mise a scheggiare quel ghiaccio letale. Si piagò le mani, ma continuò a scavare; e quando riuscì ad estrarre il corpo del piccino, si accorse che il piccolo, quasi sorridendo, stava esalando l'ultimo suo respiro. Lo abbracciò come avrebbe fatto con un figlio e, stravolto dalla fatica, perse conoscenza2). Altre vite potevano spegnersi per cui quella frenetica corsa contro la morte continuò. Dal verbale redatto dal brigadiere Prevosto Silvio e dal carabiniere Dei Cas Pietro si apprendeva che: "Dopo avere soccorso quattro ragazzi che affioravano dalla slavina, si doveva rimuovere circa mezzo metro di detriti sotto i quali vi erano i corpi di altri giovani escursionisti, ormai senza vita. Dando la precedenza ai vivi, si procedeva a trasportare, con l'ausilio dell'elicottero, gli sventurati alla località Fraté di Madonna di Campiglio. Continuando a scavare, venivano poi tratti in salvo altri ragazzi presumibilmente salvatisi grazie al riparo naturale offerto dall'anfratto roccioso e dalla camera d'aria formatasi al suo interno. Man mano che i giovani erano tratti in salvo veniva loro prestato un primo soccorso medico dal dr.Mario Castellani. Subito dopo erano trasportati, in barella, in una vicina zona dove il pilota dell'elicottero, manovrando in "overing", poteva ricuperarli. Si precisa inoltre che le condizioni atmosferiche, con accentuata grandinata durata circa mezz'ora e successivamente con pioggia e vento, avevano impedito di localizzare esattamente il luogo da dove i feriti, completamente coperti dai detriti, facevano udire le loro invocazioni d'aiuto". Nel frattempo, sulla piazzola della località Fratè, furono concentrate tutte quelle attività collaterali ma indispensabili per il completamento dell'operazione di soccorso. Ogni volta che l'elicottero atterrava con il suo carico di morte o di speranza, iniziava il successivo trasporto dei feriti all'ospedale di Tione oppure il pietoso trasferimento delle salme all'obitorio di Pinzolo. Quando l'operazione di soccorso sembrò già conclusa ed i soccorritori si apprestavano a lasciare la zona, un volontario, dando un ultimo sguardo all'interno di quella funerea fenditura, ebbe un sussulto. Gli era parso di vedere, fra la neve ed il ghiaccio che murava il fondo del cunicolo, un impercettibile movimento. Usando la piccozza, fece cadere un frammento di ghiaccio che, come un diaframma, celava il corpo di una ragazza semi assiderata e tramortita. Fu così, quasi per caso, che altre due giovani turiste furono restituite alla gioia della loro vita. Una di queste, ancora trasognata per quanto aveva vissuto, mi narrò, fra realtà e fantasia, che "in quell'inferno dantesco, si addormentò pensando al lento scorrere delle acque del suo fiume, là dove lambiva la verdeggiante pianura dov'era nata."
Le indagini di polizia giudiziaria eseguite, sia d'iniziativa, o per delega ricevuta dal magistrato, oppure per avere coadiuvato il pubblico ministero inquirente, mirarono ad accertare le cause dell'evento. Conseguentemente, già durante le operazioni di soccorso, sentimmo la testimonianza diretta dei giovani sopravvissuti. Ascoltammo il parere tecnico espresso dalle guide alpine. Raccogliemmo le immediate impressioni dei volontari che eseguirono il soccorso rupestre. Verbalizzammo l'operato dei due carabinieri che erano "abilitati al soccorso alpino in alta quota". Provvedemmo, alle ore 18 e con l'ausilio dell'elicottero, ad esperire i rilievi fotografici della zona. Alle ore 23 eseguimmo, in una drammatica situazione funerea, il riconoscimento e la ricognizione di cadavere, previsto dalla Legge. Ancora oggi, ricordando quei sei piccoli corpi inanimati nel biancore della morte, e rammentando l'incredula, attonita e straziante disperazione dei loro genitori, mi assale un'intima commozione.
Il giorno seguente, affiancammo il Dr. Giovanni Kessler nel sopralluogo della zona interessata dall'evento dove, fra l'altro, vennero eseguite nuove fotografie aeree. Dal complesso degli accertamenti eseguiti, si rilevò la cronologia degli eventi citati in narrazione. Inoltre, si constatò quanto segue.
a) Il sacerdote don Giuseppe Basini, responsabile della comitiva, era un gitante che come decine di migliaia d'altri turisti che solevano giungere al rifugio Brentei, si apprestava a ripercorrere quel sentiero Bogani da tutti ritenuto poco più che una passeggiata. Non si trattava, in sostanza, di un sentiero "delle bocchette", o comunque difficile, dove l'indispensabile esperienza alpinistica era richiamata, all'inizio del percorso, dalla segnaletica predisposta dal C.A.I.-S.A.T..
b) La documentazione fotografica evidenziò che sulla lingua di neve, prima della disgrazia, esistevano due piste o tracce che l'uragano rese poi impercorribili. Trattandosi di sentiero non ritenuto per alpinisti esperti, come indicato dalla cartografia ufficiale nonché dalle relative pubblicazioni del settore, nessuno aveva tenuto conto di sgomberare la neve che ricopriva il sentiero, o a tendere una corda per corrimano, oppure a segnalare eventuali pericoli di cui tratta anche il punto (a). La traccia centrale (vedasi fotografie n.1 e n.2) fu materialmente aperta ed allargata da Corrado Serafini, ed altri volonterosi, durante le operazioni di soccorso. La vetusta traccia superiore era già impercorribile prima dell'uragano (vedasi fotografia n.2). Il raffronto fra le fotografie n.1 e n.2 dà un'idea su quanto accaduto. In merito, occorre ricordare che l'articolo due, comma (b) e (g) della Legge 24.12.1985 n.776 prescrive che il Club Alpino Italiano deve provvedere: "Al tracciamento, alla realizzazione e manutenzione dei sentieri." e "All'organizzazione d'idonee iniziative tecniche per la vigilanza e la prevenzione degli infortuni nell'esercizio delle attività alpinistiche".
c) Bruno Detassis confermò che quando i giovani si apprestarono a lasciare il rifugio, nulla faceva presagire l'imminente nubifragio. Inoltre, la celebre guida alpina soggiunse: "Non so quale consiglio avrei dato, se mi avessero chiesto se muoversi o no dal rifugio".
d) Walter Vidi confermò che: "Quel giorno, con la grandine che era caduta copiosa, il passaggio del nevaio era pericoloso".
e) Si constatò che il tempo intercorrente fra l'esplosione dell'uragano, il conseguente riparo dei gitanti sotto la parete rocciosa ed il successivo scorrimento della slavina, fu di una ventina di secondi. Gli escursionisti, se fossero rimasti sul sentiero, sarebbero stati travolti dalla violenza della slavina (vedasi fotografie n. 3 e 4).
f) La natura, nella perenne trasformazione delle sue vie scaricò la slavina, di grandine e di detriti, sul crinale di sinistra del cono innevato di deiezione per poi franare sull'occasionale riparo cercato dai gitanti. La documentazione fotografica, contenente immagini scattate in alta quota, mostrò che tutta la zona era stata interessata da molteplici ed analoghe slavine (vedasi fotografia n.3).
g) La violenza del nubifragio, che nella genesi delle Dolomiti di Brenta era considerato un evento trascurabile, nella memoria di un uomo fu invece unico e quindi ritenuto eccezionale. Bruno Detassis, decano del Brenta, disse: "Posso affermare che non mi era mai capitato di constatare una grandinata di così notevole entità." L'eccezionalità dell'avvenimento, fu una circostanza che concorse a formare il convincimento del P.M. Dr. Kessler. Successivamente, quando il sacerdote don Giuseppe Basini fu processato per la seconda volta, il G.I.P. Giorgio Flaim fu di parere diverso. Quest'ultimo, si trovò d'accordo con la pubblica accusa, e scrisse: "Non si può certo dire che una violenta grandinata in alta montagna, il successivo ristagnare di una certa quantità di grandine in una sacca naturale ad alta quota e il conseguente precipitare di essa per la linea di massima pendenza costituiscano un evento eccezionale". Poi, il Dr. Flaim correggerà il proprio pensiero precisando che: "La comitiva si muoveva su un sentiero di montagna, sotto una grandinata di proporzioni assolutamente inconsuete che di certo rendeva difficoltoso ogni movimento".
h) Il perito Dr. Pio Bruti confermò che le sei giovani vittime erano decedute per assideramento e soffocamento. L'ispezione esterna del settimo cadavere, effettuata presso l'ospedale di Tione, dette una risposta analoga.
i) Tra, i numerosi oggetti e capi di vestiario rinvenuti nella località dell'evento, furono trovate diverse paia di scarponcini. Si dedusse, quindi, che i gitanti erano adeguatamente calzati per camminare sul sentiero Bogani.
Al fine di comprendere la progressione degli eventi giudiziari scaturiti dalla morte dei sette giovani, devo necessariamente ricordare quanto segue.
- Alle ore 13,50 del 17 luglio 1991 informammo la centrale operativa dei carabinieri al fine di notiziare il magistrato competente sulla tragedia che si stava disegnando.
- La Procura della Repubblica presso la Pretura Circondariale di Trento, percependo nei tragici fatti un'ipotesi di disastro colposo, trasmise il fascicolo alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trento che, successivamente, assegnò l'incarico al pubblico ministero Giovanni Dr. Kessler.
- Dal complesso degli accertamenti eseguiti, il P.M. dr.Kessler trasse il suo convincimento e, non ravvisando alcuna responsabilità, chiese l'archiviazione del caso. Il 19 agosto 1991, il Dr. Ancona, Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Trento, pronunciò, con Decreto, la relativa archiviazione.
Sennonchè, come si rileva dalla sentenza emessa dal G.I.P dr. Flaim, "Un esame delle argomentazioni sviluppate dal P.M. (Dr. Kessler) nella richiesta di archiviazione porta a concludere che si è avuta una diversa qualificazione del fatto, ora considerato omicidio colposo plurimo: reato di competenza di questa Pretura ai sensi dell'art. 7, comma 2, lett. h, codice procedura penale.
A sua volta, il G.I.P. (Dr. Ancona) mostra di condividere la diversa qualificazione del fatto, correttamente rilevando che nessun ruolo ha avuto l'azione umana nella formazione e caduta a valle della massa di grandine e ghiaia. Ed in relazione a tale qualificazione accoglie poi la richiesta di archiviazione. Si tratta di un modo di procedere non condivisibile, sol che si consideri che, non appena fosse stata prospettabile la diversa qualificazione, l'art. 54 c.p.p. avrebbe imposto al P.M. (Dr. Kessler) di informare, del contrasto negativo con la Procura circondariale, il Procuratore Generale; e l'art. 22, comma 3. c.p.p. avrebbe imposto al G.I.P. (Dr. Ancona) di restituire gli atti al P.M. (Dr. Kessler), non potendo egli archiviare un reato di competenza pretorile. Non si capisce quindi il motivo per cui la richiesta ed il successivo decreto di archiviazione siano stati pronunciati in relazione ad un reato per il quale l'incompetenza degli organi che procedevano era non solo evidente, ma anche riconosciuta. Quanto sopra non ha ovviamente impedito il legittimo esercizio dell'azione penale da parte del Procuratore della Repubblica (Dr. Mafferri) presso la Pretura Circondariale, per il medesimo fatto e nei confronti della medesima persona; costringendo imputato e persone offese, in un episodio seguito da mezzi di informazione e da tutta la popolazione con estrema commozione, a rievocare una seconda volta fatti di una tragicità indescrivibile; a destare nell'imputato nuove angosce e in talune delle persone offese nuove ansie di giustizia".
A questo punto, il quotidiano "Alto Adige" del 27 ottobre 1992 inizierà la sua cronaca affermando: "Più che una sentenza d'assoluzione è un atto d'accusa nei confronti del Tribunale". Ma la lettura della citata sentenza, rivelerà pure l'incredibile smarrimento d'alcuni importanti documenti processuali; infatti, il giudice Dr. Flaim affermerà: "Più complessa appare invece la valutazione della seconda condotta del Basini, quando già grandinava violentemente e nell'imminenza della tragedia. In mancanza della copiosa documentazione fotografica e della carta topografica in scala 1:25.000, elencati nella lettera della stazione dei carabinieri di Madonna di Campiglio di data 25/7/91, per una descrizione dello stato dei luoghi e della dinamica del fatto ci si può e deve rimettere alle sommarie informazioni assunte nel corso delle indagini preliminari". Sì, chi legge, ha compreso bene! La documentazione fotografica, insostituibile cardine della verità sullo stato dei luoghi e dello svolgimento del fatto, non era allegata agli atti del processo. L'indiscutibile prova sulla riconosciuta innocenza di un uomo, ma anche sulle possibili ipotesi di una diversa configurazione delle responsabilità, (vedasi punto "a" e "b"), si volatilizzò là dove mai si pensava che una sparizione del genere potesse accadere! Poi, trattandosi di procedimento speciale denominato "giudizio abbreviato" (artt. 438-443 c.p.p.), dove il contraddittorio delle parti ed il conseguente convincimento del Giudice avveniva "allo stato degli atti", la Legge non consentiva l'acquisizione dei documenti mancanti.
In questo asserto giuridico, come si rileva dalla sentenza emessa dal G.I.P. dr. Flaim, "La pubblica accusa contesta all'imputato Basini Giuseppe, il sacerdote che accompagnava la comitiva dei ragazzi, il delitto di cui all'articolo 589, comma secondo, c.p.. L'articolato capo di imputazione, ricavabile, non essendo agli atti il decreto di citazione a giudizio3), dal verbale dell'interrogatorio reso dall'imputato al Procuratore in data 13/7/1992, individua il comportamento colposo che ha dato causa al tragico evento in due distinte condotte. In primo luogo perché il Basini, trovandosi dopo una sosta dovuta al maltempo al rifugio Brentei, decideva di raggiungere il rifugio Casinei nonostante le condizioni del tempo fossero tali da non lasciare ragionevolmente prevedere un consistente miglioramento; in secondo luogo perché, sorpresi gli escursionisti da una grandinata, consentiva o comunque non impediva che alcuni ragazzi trovassero rifugio sotto un masso e in prossimità di un colatoio, dall'alto del quale precipitava una massa di materiale formato da grandine mista a ghiaia e terriccio che li investiva provocandone la morte".
Con queste premesse, le possibilità di un errore giudiziario erano evidenti. Con l'avvio del dibattito, dove il mitico Perry Mason era nella realtà forense interpretato dall'avv. Marco Stefenelli, iniziò un'avvincente sequenza processuale. Il contraddittorio con il Pubblico Ministero, appassionato e nello stesso tempo meticoloso, non fu un fiorire di vacue parole bensì la ricerca di una verità smarrita e latente. L'avvocato trentino, con una memorabile e magistrale arringa, farà rivivere, nella realtà della vita vissuta, quei drammatici momenti che precedettero la disgrazia. Poi, il G.I.P. Dr. Flaim sintetizzerà, nel suo convincimento di Giudice, che "Il Basini si trovò ad operare nella situazione d'estrema difficoltà che le dichiarazioni sopra riferite ben restituiscono. Non può essergli rimproverato il mancato adeguamento ad una regola di diligenza che nessuno, che solo provi a calarsi in quello che fu il brevissimo e tragico momento, sarebbe stato in grado di osservare." Infine, con sentenza datata 8 ottobre 1992 "Il Giudice per le indagini preliminari, Visti gli articoli 561, u.c.. 442, comma 1 e 530 comma 1 c.p.p. ASSOLVE l'imputato dal reato a lui ascritto perché il fatto non costituisce reato".
Prima di concludere, trascrivo alcune righe tratte da una cronaca riportata dal quotidiano Alto Adige del 27 ottobre 1992. "Molti atti di coraggio, d'abnegazione compiuti dagli uomini che fanno parte delle squadre di soccorso, restano nel silenzio. Ma dal verbale del maresciallo Luciano Colombo emerge lo sforzo compiuto dagli alpinisti per tentare di salvare i superstiti e portare a valle quei sette corpi senza vita.". Era doveroso ricordare quegli eroi che, in condizioni atmosferiche e di pericolo inimmaginabili, scrissero una delle più belle pagine di tutto il soccorso alpino4). Mi rammarico solo che, dopo avere personalmente proposto una ricompensa al valore civile ed avere ricevuto l'assenso del Prefetto di Trento, la relativa pratica si arenò nei meandri di quell'italica burocrazia che non tutti conoscono. Nel mese di dicembre 1991 tornammo in argomento ma riuscimmo a salvare la sola indicazione relativa al pilota dell'elicottero. Giuseppe Simonetti fu poi decorato con una medaglia d'argento al valore civile.
1) Così titolò il quotidiano Alto Adige del 27/10/1992 2) Daniele Angeli, gestore del rifugio alpino Tuckett, fu uno dei primi alpinisti a giungere nella località dell'evento in quanto aviotrasportato dall'elicottero pilotato dal comandante Giuseppe Simonetti. 3) Altro documento non allegato agli atti del processo. 4) Fra quegli eccezionali alpinisti ricordo Walter Vidi, allora responsabile del Soccorso alpino di Madonna di Campiglio, ed il suo successore Adriano Alimonta.Una sublimità di solitudini celesti.
Trecento anni sono ormai trascorsi dalla nascita del rendenese Carlo Nicola Mosca. Cento anni d'una grandezza che non temerà confronti ancora per molto, anche se un così eletto nome continuerà ad essere circondato da quell'invernale silenzio con cui troppe volte la valle ha ripagato i suoi figli migliori.
Di fronte a tanta eccellenza - sepolta entro un oblìo di secoli - torna alla mente l'indimenticabile metafora di Oscar Wilde in una delle sue rilucenti pagine.
Era da tempo aprile, narra la delicata fiaba. Dappertutto trionfavano i fiori. Gli uccelli nel cielo esultavano. Sciamavano le grida infantili. Non v'era cosa che non ridesse al sole. Ma nel giardino del gigante egoista il gelo della presunzione e dell'indifferenza continuava a tener lontana tanta gaudiosa primaverile poesia. La stessa poesia di cui - nella sua vita e nella sua opera - don Carlo Mosca fu entusiasta dispensatore. Poesia della parola incantata. Poesia dell'uditorio rapito. Poesia dell'ammirato e celebrato annuncio evangelico.
Una poesia che non aveva bisogno di versi, di metriche, di rime, di raffinatezze sintattiche. Una poesia ch'era nella parola prorompente; nella sovrabbondanza che dettava dentro; in quella stagione fiorente del pergamo che solo il disinteresse d'una valle abbandonata all'assillo materiale poteva indegnamente ignorare.
Perché l'esistenza di don Carlo Mosca fu - sin dalla giovinezza - d'una lievitazione poetica unica. Un'esistenza altissima e tersa: forse per questo invisibile a molti. Un'esistenza d'ardore, e quindi ineludibile e magari fastidiosa ai più nei suoi abbagliamenti. Un'esistenza semplice e lineare, e pertanto negata ai giorni appariscenti e alle imprese straordinarie. Un'esistenza profetica, e spesso apologetica, ma guidata dalla benevolenza interiore, dalla persuasione fraterna, dalla ricusazione istintiva d'ogni ostentazione e d'ogni pompeggiamento. Un'esistenza sacerdotale - quotidiana scala di Giacobbe - per salire a Dio e per scendere a portare il volto di Dio alle creature redente.
Solo premesso questo, nessuno stupirà d'avvertire nella sua umile origine, nella sua inimitabile tenacia, nella sua appartata modestia, nella sua ininterrotta dedizione, una sublimità di solitudini celesti.
Già quand'era in vita, del resto, egli fu un personaggio famoso e, al tempo stesso, a pochi familiare.
Quasi tutti conoscevano il suo nome, il suo volto, l'eleganza della sua lingua, l'armonia dei suoi svolgimenti tematici, ma nessuno sapeva di che famiglia fosse, da che luogo venisse, a quali esperienze e a quali sofferenze avesse temperato e nobilitato la sua mente e il suo cuore.
Quasi tutti vedevano la sua prodigalità e il suo zelo per lo splendore della casa di Dio (in marmi, in lini, in ori e in argenti) - dovunque nella chiesa di Santa Croce gli occhi si posassero - ma nessuno mostrava di cogliere nella strutturazione, sotto la casa canonica, dell'orto e del pollaio la cenobitica parsimonia del suo sostentamento a tutto vantaggio delle consistenti continue spese per l'arredo liturgico e per il patrimonio sacro.
Quasi tutti s'accorgevano della considerazione in cui era tenuto dai Principi vescovi, dai ministeriali della Curia, dalle eminenti famiglie giudicariesi, dai confratelli che si contendevano le sue predicazioni, eppure non molti capirono la sua diuturna offerta di tutto se stesso sino a ridursi a quella povertà assoluta riscontrata alla sua morte ("sì distaccato dal mondo e sì limosiniere che scarsi danari vi si trovarono per fargli un decente obito").
La vita.
Il piccolo Carlo Nicola - a raccontare in breve la sua vita - era nato a Caderzone il 5 novembre 1696, "figlio di Carlo della Giacoma detto il Mosca e della sua legittima sposa Giovanna".
Ebbe in sorte un'infanzia misera, trascinata e sofferta nell'indigenza della sua famiglia: indigenza dovuta (oltre che a una valle senza risorse) a una Guerra di successione (1701 - 1714) che nel Trentino aveva attraversato e desolato soprattutto le Giudicarie.
Avviato giovanissimo agli studi nel seminario di Trento, egli veniva - dopo otto anni - rimandato a casa, stante l'impossibilità di suo padre di dotarlo dell'appannaggio allora richiesto a quanti volevano intraprendere la carriera ecclesiastica.
Fu un colpo durissimo. Tanto più che nessuno si mosse (neppure il potente casato Bertelli) per dare un aiuto finanziario al volenteroso studente, ferito ed umiliato nel suo geloso unico sogno.
Egli comunque non si diede per vinto, e per ben sei anni (nell'insensibilità generale) continuando a vestire da chierico seguitò a studiare accanitamente, e a giorni disperatamente, per non perdere una sola ora della sua preziosa esistenza.
Fu questa, oltre tutto, la caratteristica di tutta la vita di don Carlo Mosca, e cioè quella segreta armonia tra volontà e pazienza, tra tenacia e sopportazione, tra fermezza e comprensione, propria degli uomini di autentica cultura.
E qui (senza timore di sbagliare) dobbiamo tener presente che tanta forza d'animo era la grande eredità della sua origine contadina.
Aveva invero ricevuto la sua solida formazione in un ambiente dalle consuetudini severe. Dove non si temevano le fatiche. Dove si accettavano le prove difficili. Dove mai si perdevano la calma e la fiducia di fronte alla realtà. Dove l'uomo dominava le cose, e non si lasciava vincere dall'avidità di esse. Dove sia la vita che la morte venivano considerate grazie di cui bisognava essere degni. Era cresciuto insomma a contatto con la terra, ovvero sia con ciò che di più sereno, di più sano, di più incorrotto si potesse avere. E dalla terra aveva imparato il senso dell'accettazione degli uomini e degli eventi, pur nell'incessante quotidiana lotta contro ogni ostacolo e ogni difficoltà per amore dei propri ideali.
Preparato in tal modo giunse il giovane Carlo Mosca al suo ventiquattresimo anno e, messi insieme due terreni e una casa di campagna (ereditati dal nonno), si affrettò a presentare una supplica al suo Principe vescovo per essere riaccolto in seminario: supplica che venne accettata sicché, in breve, egli fu ammesso a quell'ordinazione sacerdotale (1721), che avrebbe fatto di lui il più celebrato predicatore giudicariese dell'epoca.
Eppure non dovettero essere facili i primi anni del suo sacerdozio se, nominato subito cooperatore parrocchiale alla Pieve di Spiazzo, nonché "beneficiato della cappella di Sant'Antonio" di Caderzone, egli chiese ed ottenne - dopo alcuni anni - di andare lontano dai Bertelli (molto lontano), e precisamente alla Pieve di Strigno, nella diocesi di Feltre a quel tempo, continuando colà ad essere l'oratore di cui già aveva dato ineguagliabili prove nella sua valle, e preparandosi al tempo stesso con intensa azione pastorale a quell'arcipretura di Santa Croce che avrebbe premiato e coronato tanta abnegazione e tanto merito.
Don Carlo Mosca - accompagnato da una vasta popolarità, e più ancora preceduto dalla fama della sua dottrina - fece il suo ingresso nel Bleggio il 22 giugno 1736. Le angustie, le tribolazioni, le incomprensioni, per un uomo della sua coraggiosa levatura non sarebbero mancate. Sempre però temperate dal conforto di sante amicizie, dal godimento della bella Pieve, e dal sollievo dell'attigua cinquecentesca casa canonica con il vasto terreno sottostante che egli - figlio di contadini - avrebbe trasformato in uno splendido "viridarium".
E poi lo svago e l'impegno dei lavori di ristrutturazione e di restauro in continuazione: lavori d'un uomo che non amava la mediocrità, e che in ogni sua opera metteva un gusto finissimo e un ambizione profonda, doti di spirito in modo eccelso dimostrate nell' anno 1740 allorchè decise il rinnovamento totale della chiesa, a cominciare dalla sostituzione dell'altar maggiore ch'era in legno dorato e ch'egli volle ancor più maestoso, nel policromo disegno marmoreo, e nel superbo stile barocco, a tutt'oggi unici.
Il suo deserto armonioso.
Ed ecco quando, dopo anni ed anni di abbellimenti e di ampliamenti, sembrava che tutto fosse compiuto, e che nulla più rimanesse da fare, fiorire nell'anima del santo pievano la più toccante e commovente delle sue realizzazioni: quella cioè - piena di esempio e di significato - del sepolcro destinato ad accogliere le sue spoglie mortali.
Le spoglie dell'oratore principe - nel secolo d'oro dell'eloquenza - non solo delle Giudicarie, ma dell'intero Principato.
Volgeva infatti la vita di don Carlo Mosca al tramonto. Una vita ormai serena. Distaccata dagli avvenimenti e dalle vanità del mondo. Volta al traguardo finale mentre i fatti di cronaca intorno, la costante scarsezza dei viveri, le persistenti richieste di contribuzioni militari, si succedevano unitamente alle più nere previsioni.
I suoi occhi in realtà (i suoi occhi che nelle innumerevoli peregrinazioni pastorali avevano conosciuto le luci e le miserie dell'intero Trentino) ora - nel crepuscolare raccoglimento della vecchiaia - non vedevano che l'importanza dell'ora estrema, e non riandavano che le parole da lasciare come testamento ai fedeli in mezzo ai quali per quasi quarant'anni aveva operato con insegnamento eletto e con dedizione instancabile in attesa della chiamata e della ricompensa divina.
Il pulpito era stato il suo sogno, il suo entusiasmo, il suo campo di battaglia, la sua ragione d'essere, il suo conforto. Il pulpito doveva divenire la sua estrema dimora.
Volle allora che sotto il pulpito fosse scavata e preparata la sua tomba, lasciando addirittura - da par suo - l'epigrafe da scolpire sul marmo. "Carlo Mosca, parroco del Bleggio, ancor vivo scelse questo luogo dove seppellire le sue ossa acciocchè il popolo, grazie a lui dal soprastante podio continuamente illuminato sulle verità cristiane, comprendesse più da vicino, per le ceneri del proprio pastore, la nullità del mondo".
Nella lunga storia del Bleggio non v'era stato sacerdote che avesse disposto della casa di Dio con amore tale da poter scrivere a chiare lettere (come don Mosca fece) sulla mensa dell'altare: "Domine, dilexi decorem domus tuae et locum habitationis tuae".
E mentre un'esistenza così intensa, così ricca di aspirazioni, così totalmente consacrata al bene, così vissuta nell'operosità incessante, si andava chiudendo, le drammatiche campane a martello (fatte udire dai demolitori del Dazio di Tempesta - nell'agosto del 1768 - in tutte le Giudicarie) sembravano al cuore saggio e assorto di don Carlo Mosca suonare quasi a festa.
Per lui infatti correva il concerto forte e vario di tante campane - pur attraverso la desolazione delle ribellioni e delle violenze circostanti - a risvegliargli e a festeggiare, con i ricordi delle innumerevoli chiese, le nostalgie e le esultanze delle predicazioni, delle conversioni, delle trasformazioni, dei rinnovamenti, dei prodigi spirituali che avevano fatto della sua vita povera, solitaria, angustiata, incompresa, un "deserto armonioso".
L'eccelsa orazione funebre.
A ricordare dunque un Rendenese di tale grandezza (ma meglio sarebbe dire di così eccelsa sapienza e di così nascosta santità) nessun altro modo è sembrato più autentico e più degno della rilettura d'uno dei suoi sermoni: di quello anzi dalla parola più calda ed ispirata.
Aveva avuto l'onore don Carlo Mosca - a Santa Croce - di conoscere e di avere ogni estate in villeggiatura nella sua Pieve la religiosissima Giovanna Felicita Thun, contessa d'Arco.
Essa non solo era sorella del Principe vescovo di Trento, monsignor Domenico Antonio Thun (1730 - 1758), ma era pure nipote del Principe vescovo di Seckau, monsignor Rodolfo Giuseppe Thun, discendente di quei Capisucchi de' Thun che avevano dato - sono parole di don Mosca nell'Orazione funebre - "Cardinali a Roma, Vescovi alla Chiesa, Principi ai sogli, Cavalieri alle croci, Generali agli eserciti, e tanti Consiglieri a' monarchi".
Sposata al conte Leopoldo Fortunato, signora quindi dei feudi d'Arco, di Penede, di Drena, di Spine, di Restor, e di Castellino, fu madre di ben tredici figli. Giovanni Battista, primogenito e successore; Giovanna, Teresa, Marianna, Antonia, Barbara, Eleonora, entrate nella vita religiosa; Pietro e Vigilio, capitani di casa d'Arco; Vinciguerra, cappuccino; Carlo, morto in Ungheria; Pulcheria e Gioseffa, maritate.
Poiché ogni estate - come s'è detto - Giovanna Felicita d'Arco saliva in villeggiatura nella splendida dimora di campagna di Villa del Bleggio, non le parve vero di poter affidare la direzione della propria anima ad un sacerdote preparato e zelante qual era don Carlo Mosca. Proprio a lui, anzi, confidò una volta la gioia con cui - se le fosse stato possibile - avrebbe scelto di diventare una contadina "per essere lontana dalle vanità della terra, e per poter servire Dio colla fatica delle sue mani, nascosta a tutti gli occhi del mondo". Ecco perché, quando la contessa Giovanna Felicita, nel 1745, a soli cinquant'anni - dopo una lunga e dolorosa malattia - venne immaturamente a mancare, non altri che il grande predicatore caderzonese - suo confessore - fu ritenuto degno di quell'eccelsa Orazione funebre che, per ben due volte, ebbe l'onore di venire stampata, tanto fu ricercata e richiesta "da molti in molte città d'Italia".
Nell'arte oratoria, invero, fu la straordinaria singolarità di quest'uomo. Nella sua capacità di scendere - dall'alto della sua parola - tra le folle evolute delle città e quelle impreparate dei villaggi, avvincendole e conquistandole con la voce, con il gesto, con l'abilità comunicativa, e con la concretezza propositiva delle verità divine.
Allora ogni impeto, ogni artificio, ogni ricorso alla commozione, ogni elaborazione incantata del suo periodare, ogni analogia, ogni metafora, ogni iperbole, ogni sineddoche, rivelavano - nella vuota e barocca temperie pastorale di quel tempo - l'eccezionalità della sua eloquenza.
Voli d'antologia.
Dell'orazione funebre per Giovanna Felicita d'Arco - considerata, tra le opere del Mosca, la più partecipe - non tralasceremo d'offrire, qui, un'antologia dei brani più toccanti. E più significativi.
"È morto delle grandi donne l'esemplare cristiano; - così prendeva il volo dopo le prime parole, l'eletto elogio - è morto delle comuni miserie il sicuro rifugio; si è spezzato delle più belle virtù il lucidissimo specchio; si è infranto del trattar nobile e proprio il più perfetto modello; è morta, per dir tutto, Giovanna Felicita contessa d'Arco: e non piagneremo?
Piagni, sì, piagni, inclita Casa d'Arco, che nel morir di Giovanna si è strappata dalla tua corona la gemma più risplendente e preziosa. Piagnete venerabili sacerdoti, piagnete Ordini Religiosi, che ben sapete qual perdita faceste Giovanna perdendo. Piagnete poveri, che nel partir di Giovanna dal mondo, oh qual soccorso, qual rifugio, qual sollievo da voi è partito! Piagni Fede cristiana, che nel trasportare al Cielo l'anima di Giovanna la militante Chiesa d'uno stomento sì valido per la divina Gloria privasti. Piagnete voi pure, o sagre mura, voi sagrosanti altari, e voi Angeli santi tutelari di questo tempio augusto, mentre più non vedrete fra voi quella Giovanna, che era l'esempio della pietà, lo stimolo alla divozione, la corona delle sagre funzioni. Piagniamo tutti, che incitamento più onorato, e più giusto, non possono avere le nostre lagrime giacché tutti veniano a partecipare di cotesto irreparabile danno".
Ecco allora don Carlo (ricordate, della nobile donna, l'eccelsa genealogia e la terrena magnificenza) prendere lo spunto per esaltare di lei l'altra sublimità, quella che nè gli uomini nè i secoli possono dare.
"Ma lungi da me, e da voi, nell'ammirare Giovanna, quella grandezza che, paragonata alla vera, non merita dirsi tale, e che agli occhi di Dio non potrà, sola, alzare nemmeno un punto da terra, per quanto a mille doppi sterminata ella fosse.
Della sua grandezza Giovanna non prese gli incitamenti nè dalle affumicate immagini de' suoi maggiori, nè dalle voci di essi da per tutto rimbombanti gloria e trionfi, ma dall'Immagine e dalla voce adorabile di Gesù Cristo, unica fonte della soda ed immarcessibile grandezza.
E perciò, ad operar cose veramente grandi, tutta applicossi sul modello di quest'Esemplare divino.
Sapeva ella la dottrina evangelica insegnata dal suo Autore santissimo, e ripetuta alla Chiesa dal santo padre Agostino. Vuoi esser grande? Principia dal grado infimo. Vuoi alzar una fabbrica di tanta altezza che sorpassi le stelle tutte e poggi al trono augustissimo della Divinità? Pensa prima al fondamento profondo dell'umiltà.
Popolo d'Arco, anche per questo felice, perché Giovanna come padrona sortisti. E grande, fuor di modo grande, la tua signora appellasti quando, dalla fortuna in posto sì eminente collocata, generosa disprezzatrice del fasto abbassarsi ai più vili, non isdegnarsi a tutti di farsi uguale, sentir in se stessa e prendersi a parte le pene de' miserabili, attonito la vedesti. Quando in Giovanna con rarissimo esempio accoppiata vedesti la terrena grandezza alla semplicità cristiana.
Quando, ad onta di tutti gli applausi che la giustizia dei tuoi ossequi porgeva alla sua pietà, la sentivi risponder con quelle voci a sè fatte famigliari dalla non curanza di se medesima: - Io sono una povera donna. -
Allora, o Arco, ben penetrasti che era Giovanna ascesa al grado della più stupenda grandezza, perché aveva imparato dal Figliuolo di Dio non a fabbricare il mondo, non a dar mano ad imprese che stordir facessero l'ambizione, ma la mitezza e l'umiltà di cuore".
Non poteva dunque la morte - pur ministra della clemente volontà di Dio - compiere un'azione più dolorosamente luttuosa!
"Ah, Morte, potrai ben vantarti d'aver privato il mondo del grande guadagno che sempre maggiore avrebbe tratto dal godere lungamente le virtù di Giovanna! Ma non potrai però fare che la memoria cancelli dal cuor di tutti quella grandezza che con l'esercizio di quelle acquistossi! Balzata vicina a Dio dalla sua umiltà, parve che tutti ricopiasse di quell'originale perfettissimo gli abbigliamenti. Quella prudenza non del secolo, ma del Vangelo: non solo nell' indirizzare e compiere con tanta lode gli affari di se stessa, della famiglia, e de' popoli, ma nel discernere i beni veri dai falsi, e a quelli volgere tenacemente il cuore. Quella temperanza che una nausea perpetua le mantenne costantemente di tutte le delizie, di tutti i piaceri, di tutta l'affluenza di beni del mondo, a segno che più volte, con mia edificazione, l'ho udita meco esprimersi che con ben allegra prontezza, se Dio le avesse permesso di cambiare stato, subito avrebbe cambiato la sua condizione con quella della più misera villanella delle campagne - e soggiungevane la ragione - è per essere lontana dalle vanità della terra, e per poter servire Dio colla fatica delle sue mani, nascosta a tutti gli occhi del mondo".
S'accorgeva, a questo punto, don Carlo Mosca d'avere parlato di sè, della sua sconfinata ammirazione per la santità della defunta, e quasi rendendosi conto che anche altri volevano poterne dire, non solo - con l'arte sua - mutava il tono della voce, ma dava alla parola un'immediatezza nuova.
"V'intendo, affollate turbe di poveri, v'intendo! Non me n'dimenticava io già. Che se anche da ingiusto e maligno taciuto l'avessi, parlato n'avrebbe tutta la Chiesa dei Santi che non meglio s'accorda in applaudire alla virtù de' suoi figliuoli che in narrare le loro limosine.
V'intendo: volevate dirmi che se Giovanna, per arrivare alla vera fortezza, fece cose grandi nell'esercitare e nel possedere le già dette e le altre moltissime virtù sublimi, sopra ogni misura grande l'ha renduta la carità verso di voi impiegata, quella che per bocca del divino Spirito è detta beata: `beato chi prendesi a cuore il mendico ed il povero'.
Ma di quello che a dirmi s'affrettano in flebili voci i poveri, per la morte di Giovanna divenuti orfani, ne sono ripieni gli spazi tutti e di questo, e de' vicini, e de' rimoti paesi. Ne parlano e ne parleranno in eterno, al trono del divin Padre de' poveri, tanti nudi vestiti, tanti affamati continuamente cibati, tanti infermi largamente e di medico e di rimedj e di vitto e di letto e d'assistenza provveduti.
Tanti oppressi dal misericordioso suo padrocinio sollevati. Famiglie intere (e le so io) liberate dal rossore di chiedere, e sovvenute con mano tanto più meritoria quanto segreta. Chiese ed altari arricchiti ed ornati dalla sua pia beneficenza. Monisteri amati, riveriti, e dalla sua liberale divozione assistiti.
Non v'affannate perciò maggiormente, sapientissimo Salomone, in cercar di lontano e nell'ultime spiagge del mondo la `donna forte'. Qua rivolgete veloci e festosi i passi, e s'ella è tale a quel segnale divinamente scritto da voi: `aprì la sua mano al bisognoso, e la sua palma verso il povero stese': in Giovanna trovata sicuramente l'avrete".
Prendeva così l'avvìo l'Orazione vera e propria (l'Orazione alla "donna forte") per la quale il predicatore con tono pacato e dottrinale nella solennità del tema.
"Voi signori, voi popolo d'Arco, in testimoni oculari e veridici chiamo, ed obbligo a confessare a maggior gloria di Dio quanto di grande ridusse ad effetto in voi la vostra morta padrona.
La frequenza a sagramenti con tanto vantaggio dell'anime e con tanto scapito dell'inferno introdotta sì felicemente in questa maestosa basilica, dite pur voi, non ha avuto l'origine dall'esempio della contessa Giovanna? Adorazioni della santissima eucaristia più dell'usato, e più riverenti, e più assidue; novene religiosamente da una gran parte osservate; predicazione evangelica con accuratezza e con frutto promossa; spiegazione della cristiana dottrina dalla sua zelante protezione rinvigorita, non ebbero elleno o l'origine o l'avanzamento dall'insigne pietà di Giovanna?
So pure che non cessate, e mai cesserete, di ringraziare la Provvidenza perché la compostezza nel vestire della vostra eccelsa Padrona ha esigliate dalle donne tutte del vostro distretto le pompe che incominciavano a puzzare di scandalo, riducendole con esempio sì vigoroso e stringente a non uscire nè dalle regole del loro stato nè da' precetti della cristiana modestia.
So ancora, e lo sapete pure voi, a quanti pubblici e privati disordini abbia trovato il rimedio; quante giovani pericolanti abbia posto in sicuro; quanti traviati abbia ricondotti al sentiero retto del vivere. So tutto questo, e molto più, che voi narrate ai figliuoli e ai nipoti acciò si perpetui in essi, con la memoria della vostra grande padrona Giovanna, il frutto del suo cristiano contegno.
Ma la sua nobile figliolanza, grande agli occhi di Dio per le faticose industrie di tanta madre, meglio vi saprà dire quanto vieppiù oprar sapesse Giovanna. E celebre è quel giusto elogio che dalla fama porgevasi a Giovanna contessa d'Arco, e cioè che così bene sapeva osservar le orme dei suoi domestici, tantochè sembrava il suo palazzo una Casa religiosa e non una Residenza d'alti dinasti.
Là tutto spirava modestia, tutto pietà, tutto ordine: l'orazione a suo tempo: le conferenze spirituali a suo tempo: la sagra lezione a suo tempo: le limosine ai poveri che assediavano gli atrj, le scale, le logge, le sale in ogni tempo; le pitture poi tutte sante, oppur sì modeste che nel palagio di Giovanna potevan sicuri passeggiar gli occhi, senza rischio d'inciampare in quegli sfortunati e fatali pericoli che pur troppo s'incontrano in tante case de' grandi, ancorchè cristiani".
Lei era veramente la "donna forte" delle scritture. Forte soprattutto nelle prove. E prima ancora nelle implacabili infermità.
"Sentiva quell'Anima travagliata vicino il mortale suo fine, e avvertendo l'ora beata d'unirsi a quel Dio, che tutto era lo scopo de' voti suoi, oh quali e quanti furono li di lei sforzi affettuosi per assicurarsi il possesso d'un bene infinito, d'un bene con tanta sollecitudine amato, d'un bene in cui solo trovar potevano riposo le pene sue.
Qual compendio di meraviglie non vedeste, riflessi miei, nella lunga infermità di Giovanna! Vedeste una rassegnazione sì ubbidiente e sì pronta a' decreti divini che maggiore desiderar non potrebbesi da chi fosse vissuto tra chiostri più osservanti e più rigidi, o nelle penurie degli eremi più deserti. Vedeste uno staccamento così perfetto dalla carne, dal sangue, dal mondo, che ormai era divenuta Giovanna insensibile alla tenerezza, ai sospiri, alle lagrime de' figliuoli, che desolati le facevan intorno al letto onorata, ma dolosa corona. E quel che è più, e che io sempre ho attribuito ad un miracolo della grazia meritata dalle sue grandi virtù, la vedeste non solo non commossa, ma talmente staccata dal vezzoso suo figliuolo pargoletto, conte Vigilio, che pur sapete quanto l'amasse, cosicchè ne' cinquanta giorni del suo penare nè il vederlo ai suoi occhi nè il ricordarlo alla sua lingua permise. Non aveva già dell'amabil fanciullo la memoria abolita dal cuore, ma in quest'anzi risalta della fortissima madre la cristiana costanza, ed il generoso patire, chè dove la natura portava al caro figliuolino gli affetti, questi venivano da Giovanna con eroico sebbene penosissimo sagrificio dirizzati a Dio al quale allora credeva d'offerire un olocausto de' più odorosi quando porgevagli tutta l'anima con tanta sua industriosa fatica".
E tutto ciò - a quanti umanamente supponevano che non si potesse soffrire e sopportare oltre - non era che una parte della sua totale offerta a Dio.
"A questo fine, non contenta del soave giogo di Cristo che sono li precetti del santo Decalogo, i quali fanno camminare diritta l'anima, volle coraggiosa sottoporsi, per quanto permettevale lo stato suo, ben anche al peso di quelli che sono i consigli evangelici, professando la beata regola del Terzo Ordine del Patriarca San Francesco. Questa fortezza nel patir cose grandi, che agli occhi di Dio seppe rendere grande veramente Giovanna, benché tutta si custodisse gelosamente nel segreto più recondito della sua bell'anima, non poteva a meno (qual sole che, sebben coperto da dense nuvole, tramanda di quando in quando i suoi lumi) di non traspirare sensibilmente al di fuori. Ne furono evidenti dimostrazioni e quella mansuetudine con cui seppe tener in perpetua rigorosa catena i moti della sua irascibilità, naturalmente per altro accesi, e quel contegno di vivere che, separàtala dal mondo in mezzo al mondo, faceva all'anima sua goder i frutti della solitudine nella turba degli affari, e quell'alienazione perpetua da tutti i divertimenti del secolo, che si possono godere senza offesa bensì di Dio, ma non senza grande scapito del fervor dello spirito".
E dopo un tale partecipato ammaestramento, dopo una così alta lezione di spiritualità e d'ascetismo - (come in una sofferta sinfonia che volga al suo termine) - la pacata conclusione con la quale vogliamo al tempo stesso chiudere sia questa breve doverosa antologia, sia l'umile omaggio al celebre oratore caderzonese nel terzo centenario della sua nascita.
"È questo il patire cristiano, che sì grande rese Giovanna contessa d'Arco. Patire che, da quel Dio per cui pativa Giovanna, mostrossi quanto accetto gli fosse e quanto premiar il volesse, mentre con singolar provvidenza ha voluto che, proprio in questo giorno in cui la Chiesa celebra la memoria de' Dolori di Maria Santissima, si ridica pure il patire della sua serva Giovanna contessa d'Arco, acciocchè si sappia qual mercede sia per ottenere sotto auspici sì gloriosi e sì santi.
E qual mercede? Quella che a una fortezza sì eroica ha preparato il Dio dei forti, cioè di glorificare con Lui chi s'è scelto di patire generosamente con Lui. Quella mercede che avremo pure noi se, dopo avere in qualche parte per consolazione de' nostri affanni ritoccate le virtù cristiane, seguiremo gli esempi di Giovanna contessa d'Arco."
Là dove la brezza che sale dal ghiacciaio ti accompagnò nell'asperità dell'ascesa, e là dove, lo spirito degli alpini, aleggia in quel cielo che ti parve così vicino, una lignea croce ti ricorda Dio.
Tu sai che accanto a quel simbolo di pace, uomini in armi vissero l'ansia dell'attesa; poi pugnarono, e morirono, nell'assurdità della guerra. Tanti anni dopo arrivò, da un paese lontano, un Papa del nostro tempo; e la sua preghiera, espressa sotto quella croce che mani ignote eressero con umile devozione, giunse in ogni parte del mondo. Ora, la vecchia croce, carica di storia e consunta dal tempo, si sta frantumando su quella cresta che ne porta il nome. Abbiamo, così, accolto il suggerimento di collocare una nuova croce, su quella precisa zona della "Cresta Croce", che indicheremo come "Punta Giovanni Paolo II".
Il progetto, curato dallo Studio M.P.S. di Tione, sarà realizzato dalla "Soc.F.lli Pedretti Graniti" di Carisolo.
L'opera, dopo le necessarie autorizzazioni previste dalle disposizioni in vigore, sarà inaugurata nell'anno del giubileo.
La discussione "pubblica" sul Parco Adamello - Brenta, svoltasi nelle sedi a ciò deputate, mi ha messo molto a disagio, il "clima" che qualcuno ha deliberatamente instaurato ha prodotto una forte incrinatura nei rapporti tra persone civili. Un clima che intimorisce (ed ha pesantemente intimorito) e che non mette in condizione le persone di esprimersi liberamente è una cosa terribile, vuol dire che la democrazia ha preso una brutta piega, che c'è bisogno di più rispetto reciproco e consapevolezza dei propri ruoli. Nonostante questo c'è chi si sforza, seppur nella diversità delle opinioni, di instaurare dialoghi e confronti sereni su queste tematiche. Mi scuso fin d'ora se qualcuno si sentirà offeso per quello che andrò a dire, non intendo offendere nessuno, ma pretendo di dire quello che penso liberamente.
Nel merito del piano del Parco alcune scelte non mi convincono.
Ambiente e turismo sono strettamente collegati tra loro. A differenza di altre attività economiche, però, in questo caso il collegamento (non quello sciistico) è del tutto particolare, in quanto si articola sia "nell'attrazione" che gli spazi naturali esercitano sul turismo, sia nella "repulsione" che l'ambiente arriva a dimostrare per eccesso di turismo, sia infine in un fenomeno "paradosso" costituito ancora dalla "repulsione" che i flussi turistici arrivano ad avere per gli ambienti da essi stessi degradati.
Scopo dei parchi è la tutela delle caratteristiche naturali e ambientali, la promozione dello studio scientifico e l'uso sociale dei beni ambientali (art. 1 L.P. 18). La disciplina urbanistica e territoriale nonché la tutela e la valorizzazione delle caratteristiche ambientali, naturalistiche, storiche ed economiche di ciascun Parco si realizza mediante un piano del Parco (art. 20 L.P. 18).
Ecco che allora il ruolo del parco appare fondamentale e va colta fino in fondo l'occasione del piano per avviare la transizione verso nuove modalità di uso del territorio, che sappiano valorizzare le risorse esistenti rispettandone l'equilibrio.
È dall'agosto del 1993 che i Comuni hanno avuto a disposizione la proposta di piano, essa è stata emendata, corretta, rivista e aggiornata per essere infine votata dai Consigli comunali dei Comuni proprietari del parco. I delegati della Rendena, prima del nefasto 28 marzo 1996, si sono ritrovati più di 20 volte per chiarire, analizzare e decidere. Tanto che ad un certo punto, con tutte le manomissioni introdotte il tecnico rinunciò all'incarico, ma si sa: è chi paga che decide la musica, e si trovò una soluzione "all'italiana", infatti il rapporto di sintesi iniziale è stato modificato in sole due parti, e i "principi " si sono salvati.
Ma poi è accaduto che qualcuno, dopo tre anni, forse non aveva ancora analizzato a sufficienza; altri si erano fermati a pagina 3 del rapporto di sintesi, e di lì non si sono più schiodati, certuni sicuramente non lo hanno nemmeno letto, ma vanno pontificando in eguale misura. Intanto nelle riunioni pubbliche si reclamavano diritti usurpati, si sono diffuse voci esasperanti con un rifiuto ad una riflessione costruttiva che può costituire per alcuni gruppi motivo di vanto, senza capire che non è vedendo il Parco come nemico da battere, indipendentemente dai contenuti che propone, che si risolvono le questioni, questi sono solo pregiudizi.
Questa posizione di "istigazione morale" alla paralisi del Parco da parte di alcuni personaggi eccellenti ha mortificato l'Ente e non fa certo onore a chi lavora per la promozione turistica delle nostre zone, e alla politica del "contrappasso" dei "nuovi" amministratori del Parco. Sarà contento ora quel Cappon che faceva il "campanaio in un pollaio", ha suonato talmente forte le sue campane che si sono scomodati in ogni dove.
Credo che il collegamento sciistico sia sempre stato un falso problema, ma che gli interessi "forti" abbiano spinto per ben altri risultati. Probabilmente non solo si è voluto far pagare "il disegno" fatto del Parco a suo tempo, ovvero la perimetrazione che, sicuramente interessata, lasciò fuori aree (anche sciistiche) di notevole pregio, ma si sono regolati anche altri conti, altri "mercati".
C'è una radicata opposizione che appare contraria a qualunque tipo di scelta, per questo genere di opinioni non è il piano che è messo in discussione, ma tutto ciò che lo ha anticipato e reso possibile, e per questi (senza offesa) "spaccalegna" non servono pieghevoli patinati, ma serve la forza delle idee.
Il tecnico Ferrara ha scritto che "i vincoli apposti dal piano non sono in grado di modificare quasi nulla dei diritti storicamente acquisiti dalle comunità locali, che potranno di norma continuare a cacciare, a pescare, a tagliare boschi, a pascolare, a cavare roccia, a ricrearsi negli alpeggi e a far funghi più o meno come prima, proprio come accade al di fuori dei confini del parco" ed allora mi chiedo a cosa serve un Parco? Però intanto le modifiche introdotte in negativo dal mio punto di vista, non sono poca cosa.
Dopo anni di attese questo piano poteva rappresentare una prima esperienza di pianificazione di un territorio in cui sono probabilmente prevalenti e contrastanti i problemi, gli orientamenti e l'operatività di altre discipline. Le indicazioni del piano si articolano su obiettivi di tutela dell'integrità naturali diffuse nel Parco secondo un bilancio di compatibilità tra valori riconosciuti e uso delle risorse largamente condivisibili. Ed è vero che con il piano si passa dai vincoli ai progetti. Ma nello stesso tempo lo si è fatto diventare quello che non è ovvero: il luogo deputato alla soluzione dei conflitti, che dovrebbero essere risolti dai rappresentanti della società tutta nel suo complesso, (non solo i Sindaci, anche i turisti ad esempio).
Si tratterebbe allora di affrontare il problema di una negoziazione ambientale tra chi vuole comunque utilizzare l'area a parco a prescindere dalle esigenze di tutela e conservazione, e chi invece, anche tra la popolazione locale, ritiene che sia necessario ed indispensabile una qualche forma di protezione/limitazione nell'uso della risorsa ambiente.
Affrontare questa questione è certamente difficile, lo è particolarmente oggi in una fase in cui la sensibilità ai problemi dell'ambiente è assi più viva, diffidente e "suscettibile" rispetto al passato e la sfiducia verso le istituzioni assai maggiore. Lo è particolarmente laddove uno dei presunti "colpevoli" della compromissione dell'ambiente è direttamente parte in causa.
Il "Piano Nazionale per lo Sviluppo Sostenibile" del 1994, in attuazione dell'Agenda 21, auspica la "diffusione del turismo sostenibile" inteso come turismo che non "consuma", ma al contrario che riscopre, valorizza e lascia al godimento delle generazioni future tutti quei beni che costituiscono la sua stessa ragion d'essere come fenomeno sociale, culturale ed economico. Anche la "Carta sull'etica del turismo" del 1993, promossa dal Touring Club Italiano, prevede la nuova prospettiva del "turismo sostenibile", vale a dire di un turismo che tenga conto del fatto che le risorse ambientali non sono illimitate e non sono rinnovabili: è in sostanza una nuova e corretta impostazione dei rapporti fra turismo e ambiente.
Si tratta, e siamo ancora in tempo, di far capire, ed in questo è necessario intervenire con il coinvolgimento delle parti, che è nella salvaguardia del territorio incontaminato (giustamente promozionato) e nell'offerta di bellezze naturali fruibili in pace, che le comunità alpine possono giocare le carte per un nuovo sviluppo "pulito", e le opportunità per un riscatto economico "compatibile" con l'ambiente.
In una fase in cui settori politici arretrati (e molti Sindaci ci mettono del loro) stanno mettendo in discussione gli indirizzi urbanistici di questi ultimi anni, in quanto troppo "ambientalistici" fa francamente paura pensare a cosa può accadere del Trentino se si ripartisse con l'uso dei piani sovradimensionati in termini di volumi edilizi; si eliminassero le aree di salvaguardia dei biotopi, si realizzassero sistemi di viabilità in funzione di un sempre maggiore flusso turistico, ed infine si svilisse la funzione dei parchi naturali a mera identificazione cartografica senza contenuti di "ragionata" salvaguardia e ricerca scientifica.
È necessario viceversa che le amministrazioni locali più attente, accentuino gli indirizzi in funzione protezionistica, che hanno un ritorno economico di gran lunga superiore allo sperpero del territorio, attraverso un'azione capillare di recupero ambientale delle aree protette ai fini di un turismo culturale e didattico non dirompente e degradante, perché l'ambiente non è degli "ambientalisti" ma di tutti indistintamente.
Il secondo principio della termodinamica spiega chiaramente che ogni impiego di energia consuma una parte di energia che non si riproduce più. Educare ad un'etica non entropica, far capire che l'energia che abbiamo, che si presenta in mille forme, è un'energia che possiamo usare per la vita, ma che non possiamo sperperare perché la storia dell'uomo durerà solo finché ci sarà energia; un'etica non entropica è in definitiva premura per la gente del futuro, ed il rispetto dell'energia fa parte della coscienza morale. Dobbiamo educare (è compito degli amministratori avveduti) ad una visione della vita umana come parte di una globalità indivisibile per cui la vita dell'uomo non è che un punto, un nodo nel tessuto multiforme della biosfera. Non è vera la divisione Aristotelica della vita, che ha messo gerarchicamente al primo posto l' uomo, poi gli animali ("esseri razionali"), infine le piante. Il sottinteso ideologico di questa affermazione, è l'antropocentrismo, secondo il quale l'uomo, al centro della natura, può usare ed abusare delle sue risorse. L'uomo è invece parte della biosfera, di questo tessuto unitario e impalpabile, pieno di scambi interiori, di equilibri sottilissimi (che oggi capiamo meglio) che deve rispettare, pena la sua stessa sopravvivenza. La "nuova alleanza" fra l'uomo e la natura, è la condizione della sopravvivenza umana, i parchi sono una anello, forse debole, di questi legami.
Gli imponenti movimenti turistici degli ultimi decenni si sono invece sviluppati in modo del tutto incontrollato; se le masse dei turisti sono abbandonate a sé stesse nei boschi, sulle rive dei fiumi e dei laghi o anche sulle coste del mare, è fatale che si moltiplichino i disturbi ed i danni. Bisogna invece organizzare i flussi turistici, canalizzandoli in aree determinate, appositamente attrezzate, e risparmiando altre aree.
Questi obiettivi, per una zona ampiamente dipendente dal turismo, potranno essere raggiunti se il Parco acquisterà autorevolezza nella gestione delle risorse naturali, dimostrando che il suo ruolo non è puramente di abbellimento esteriore. Esso dovrebbe diventare un elemento prioritario nell'agenda politica delle comunità locali, che investendo risorse e accettando alcune limitazioni, otterrebbero sicuramente grandi benefici sul lungo periodo, quando il Parco avrà acquisito una fama internazionale.
Il turismo è materia prima per la crescita economica, ma è anche "prima materia", il primo campo d'intervento praticabile, per soddisfare quella richiesta di incentivazione di attività economiche che viene formulata, come compensativa di vincoli, proprio dalla popolazione delle aree naturalisticamente pregiate che debbono essere protette.
Ed è su questo che serve uno sforzo di "ragionevolezza", una meditazione su scelte che vadano nella direzione dello sviluppo del Parco e del suo piano di programmazione bio-urbanistica.
Nel Parco (solo area C8) ci sono 38 impianti (44 complessivi) con 70 km di piste e una portata max di 42.500 persone /ora. Sempre in Giudicarie sono state trasportate nel 1995 più di 9 milioni di persone. Non c'è dubbio che gli impianti sciistici provochino effetti negativi che si incrementano progressivamente, ove viene messo in moto un processo di crescita ininterrotta che vede la moltiplicazione delle strutture di accoglienza, il potenziamento degli impianti per adeguarli al flusso di pubblico; ciò comporta la necessità di allargare e livellare le piste, tutto ciò a scapito del bosco che viene tagliato ed indebolito. La neve artificiale può alterare la composizione floristica e faunistica del terreno, modificando la microfauna del suolo. Tutto ciò senza contare il danno paesaggistico che, nei casi estremi, va a dequalificare l'offerta turistica estiva, basata proprio sulle qualità ambientali. Paradossalmente coltiviamo e incentiviamo un turismo che distrugge se stesso.
Anche agli "operatori del settore" dovrebbe apparire evidente come le punte delle presenze attuali consiglino l'azione per un'offerta turistica diversificata ma questo evidentemente contrasta con le attività che erano scrupolosamente regolamentate nell'interesse della collettività degli abitanti della montagna.
In effetti il turismo è diventato una funzionalizzazione del "vuoto" alpino alle esigenze metropolitane, con quanto ne consegue dal punto di vista della omologazione "culturale". Non si pensa invece ad un turismo globale che provoca minor impatto ambientale sul territorio ma che potrebbe ripristinare molte di quelle caratteristiche che sono andate perdute con l'industrializzazione e con l'abbandono della montagna.
Invece il Parco potrebbe diventare non solo luogo di conservazione della natura, ma sede di conservazione, sperimentazione ed evoluzione della civiltà nel suo complesso: della cultura e delle popolazioni alpine, ricchissime di "biodiversità". Le attività tradizionali andrebbero valorizzate, protette, finanziate, estese e rafforzate: in questo modo, la stessa cura del territorio verrebbe svolta da coloro che per secoli hanno assolto a questo compito (i caroselli cosa c'entrano con questo?) . Invece si ha l'impressione che si voli bassi, che la navigazione sia "a vista", che non si stia "programmando" il futuro, ma che ci si riduca ad una mediocre gestione del presente.
Alcune osservazioni nel merito del Piano.
Sia nelle norme che nel rapporto di sintesi si demanda a possibili modifiche, una specie di continuo rinvio ai piani annuali di gestione, per le eventuali modifiche, stravolgendo metodologicamente l'impianto stesso della legge perché sono i piani annuali che debbono essere formulati in osservanza del piano (art. 24, comma 3). Per la Val Genova, in cui l'effetto "danno" va valutato nei suoi termini globali, l'asportazione di oltre 100.000.000 mc. di materiale sicuramente la trasformerà e le giustificazioni per cui se in val di Cembra si cavano in un sol giorno le quantità che si cavano in Val Genova in un anno cosa significano? Che se la foresta Amazzonica viene spianata qui possiamo tagliare tutta la foresta di Paneveggio? Senza poi considerare che la val di Cembra non è Parco. A Tovel si prevedono delle pedonalizzazioni, però ci sono le piazzole di scambio (per i pedoni?) ed è sospetta la modifica introdotta nelle norme. Le zone B1 alpi e rupi vengono riportate sullo stesso piano dei pascoli B4, il tutto per recuperare "patrimonio edilizio", ma a quali fini se non speculativi e di ulteriore antropizzazione delle aree? La scelta relativa all'impianto del Dos del Sabion risulta in contrasto e contraddittoria, più precisamente le norme previste con l'art. 19 con l'art. 29 delle norme di attuazione del Pup, ma anche con l'art. 23 punto 2 della stessa L.P. 18/88. Non concordo con l'inserimento di molti manufatti di proprietà privata come volumi recuperabili per la residenza perché scateneranno la corsa alla "casa nel Parco" con ricadute sul mercato immobiliare facilmente immaginabili. Ed è anche preoccupante che siano spariti i riferimenti all'uso dei fuoristrada e alla pratica dell'eliski (art. 32) Ritengo infine positivo il previsto ampliamento dei confini su cui (visti i tempi) andranno fatte talune verifiche di "gradibilità" ed ammissibilità capillari. Su quest'ipotesi andrà formulata una proposta di simulazione giocata, che coinvolga tutti gli attori sociali interessati, per capire quanto il Parco sia accettato dalla popolazione, e su quanto ci sia ancora molto da discutere e partecipare.
Li doni e i lavandin Stì agn ghèra tanc lavandin da Ruina a Bavdin indù ca li doni li lavava e in po' di filò li fava; li ghiva la bruntula suli spali ca al pariva li gavus li ali Li vuliva lavar ben la roba dai sò gnaraloc ca iera tanc! e nu i vuliva ca i ciapos i pioc Par li doni l'era al sò svago i lavandin ca ci li siva li nutizii dai so visin! Quan ca po' li era in tanti ghèra na gran confusion cumi ades a la television Intant ca li lavava li cantava zerti invezi li murmurava, li si ufindiva e li tacagnava D'invern però l'era fazil ciàpar i dulor alora di caciada li nava dal dutor Puroti, li fava na pora vita nu tan vigivi tanti cul zigareto in buca e la schina drita! Ades in tuti li casi ghe la lavatrice ca par tuc le stada na ristoratrice! Par esempio ades l'economia na li sa gnanca cu la sia! Anca li pu sapienti li tra via tut cume nienti: pan, furmai, di tut, parfin le foti di parsut! E li dis: al sèt ca al mondu le cambià? Senza però pinsar sa la ghi durarà...
Fernanda Caola
Ritorno all'Alimonta Tornare all'Alimonta con il peso maggiore degli anni, ma sentirsi ancora leggeri nel salire, sicuri nella presa dell'appiglio, ansiosi di squarciare orizzonti di roccia e di nevai, col fiato mozzo, tentando l'Oltre. Tra edelweiss genziane e gigli rossi si rinnova il miracolo, se nella mia è ancora la tua mano, se voci amiche ti circondano. Un sottofondo che sale verso l'alto.
Aldo G.B. Rossi
Quando muore una guida. A Fino Serafini Quando muore una guida su al Crozzon e l'elicottero singulta e lacera il silenzio delle valli con un rombo di lutto - nel mattino beffardamente terso gli edelweiss, le roride genziane schiudono le stupite corolle, intensamente le negritelle odorano di incenso, bramisce sgomento il camoscio in bilico sul più alto spuntone - un chiuso grumo di dolore scende giù nel paese, si diffonde da casa a casa, si scheggiano i grani di un martoriato rosario, la mano che forte teneva l'appiglio, la mano a tutti amica e gentile segna livida e inerte corde e piccozza. Gli uomini di valle si uniscono nel segno della Croce, poi, alla baita, insieme bevono vino rosso, viatico e speranza per chi va, per chi resta nel perenne irrisolto di ogni uomo.Aldo G.B. Rossi
Su alla sella del Tuckett Su alla Sella del Tuckett ti ho fotografata con amore. Certo, ho messo tutto il mio amore nell'esposimetro e nell'obiettivo. E tanto era sparso con le genziane, con i rododendri e con l'arnica, per breve ora fulgenti, tanto acquattato nei mughi contorti di vento e di solitudine, o scintillante nelle vedrette tra i campanili di Brenta. Vieni, dammi la mano, ancora saliamo del nevaio sullo scrimolo bianco Ci accompagna il fischio delle marmotte.Aldo G.B. Rossi
Vorrei chiarire subito che considero una ottima ed intelligente soluzione l'idea di collegare la Val Rendena a Campiglio mediante un sistema di trasporto la cui finalità fosse quella di eliminare parte del traffico automobilistico dalla sede stradale. Meno razionale ed abbastanza assurdo mi sembra invece il progetto di "collegamento sciistico" che tanto stà a cuore a tutti i Sindaci di quei comuni proprietari dei terreni inseriti nel piano del Parco Adamello-Brenta.
In sintesi il "Collegamento Sciistico" prevede di sfruttare il versante Nord del Doss del Sabbion e il versante Sud della valle che da Campiglio scende in Val di Brenta, realizzando nuovi impianti a fune, piste sciistiche e le relative strutture di supporto al progetto. Ma purtroppo per i progettisti, l'importantissima ed essenziale particella di "Plaza" in Valle di Brenta, dove dovrebbero sorgere le stazioni di valle degli impianti di risalita verso il Doss del Sabbion e verso Campiglio e di seguito alberghi e condomini, si trova attualmente entro i limiti del Parco e se non verrà liberata dagli attuali vincoli, addio collegamento.
Pertanto questi terreni posti nella meravigliosa conca adagiata fra l'inizio della Val di Brenta e la Val d'Agola assumono una importanza capitale tale da far sospettare che la "guerra" al Parco potrebbe essere pilotata proprio da coloro che nella sua bocciatura vedrebbero la "liberazione"della essenziale particella la quale, senza voler pensar male, potrebbe essere barattata con la cessazione dell'ostruzionismo al Parco stesso. In qualsiasi caso questi terreni diventerebbero una delle più preziose ed appetibili aree del Trentino e come tali il loro valore commerciale andrebbe alle stelle facendo esplodere le mire speculative di tutti gli interessati, onesti o disonesti essi siano.
A questo punto viene spontanea una domanda: questo ostruzionismo al Parco sarebbe stato così duro se la fondamentale particella di "Plaza" in Val di Brenta non fosse mai stata inserita dentro i confini del Parco e quindi non soggetta a vincoli ambientali e urbanistici?
Lasciando però da parte le ipotesi e le illazioni c'è un lato tecnico che non bisogna dimenticare: sciisticamente questo collegamento è un progetto realizzabile? La mia esperienza di guida alpina e maestro di sci mi induce a dire no. E vediamo nel dettaglio perché.
Il versante Sud Est e Sud dello Spinale, sono da considerarsi ad altissimo rischio per il costante pericolo di valanghe, mentre il versante Sud-Ovest non è praticabile. Pertanto, fare scendere degli sciatori in "Val Brenta" lungo quei pendii, sarebbe un gravissimo errore del quale prima o poi gli organizzatori ne pagherebbero le conseguenze. Sul versante Ovest, la zona "5 Laghi", oltre a problemi di innevamento sotto la quota del Condominio Panorama, c'è l'intoppo della Strada Nazionale che in qualche modo potrebbe essere superato. Quindi, per raggiungere "Plaza" e il futuro impianto di risalita per il "Doss del Sabion", rimarrebbe il versante Sud. Scendere cioè nei pressi del "Maso" per proseguire lungo la vecchia strada di Campiglio o nelle sue immediate vicinanze.
Queste due ultime soluzioni sono però realizzabili solo con condizioni di innevamento eccezionale. Perciò, considerando la quota relativamente bassa di quella zona e la sua esposizione completamente rivolta a Sud da metà gennaio in poi il terreno è notoriamente senza neve e pertanto impraticabile agli sciatori, i quali, per scendere da Campiglio in "Plaza" sarebbero obbligati a servirsi di un impianto.
Proviamo allora a ricostruire una giornata sciistica di un potenziale cliente che facendo base a Pinzolo voglia sciare a Campiglio usufruendo del "Collegamento Sciistico".
Il nostro sciatore partirebbe da Pinzolo ed in circa 25 minuti, usufruendo prima dell'agganciamento automatico e poi della seggiovia, arriverebbe in cima al Doss del Sabbion. Da qui, percorrendo la bella pista che si snoderà lungo il versante Nord, arriverebbe in "Plaza" dove prenderebbe il nuovo impianto e in circa mezz'ora, salirebbe allo Spinale o a Pancugolo secondo dove i progettisti crederanno più opportuno realizzare il "Collegamento".
Al ritorno, durante il periodo in cui mancherà la neve, il nostro sciatore, non potendo arrivare con gli sci ai piedi in "Plaza", dovrà per forza riprendere in discesa l'impianto che lo aveva portato in quota e, una volta arrivato in Val di Brenta, dopo essere risalito con un altro impianto al Doss del Sabbion, potrà finalmente scendere con gli sci a Prà Rodont dove sarà obbligato a riprendere la telecabina perché da questa stazione a Pinzolo la pista è quasi sempre impraticabile per mancanza di neve.
A grosse linee questo sciatore passerà due terzi della sua giornata sciistica sugli impianti. E c'è da chiedersi se dopo la prima esperienza crederà opportuno ripeterla oppure se si rimetterà in vettura e salirà a Campiglio come aveva sempre fatto. Ma allora, se le mie osservazioni fossero fondate, a chi e a che cosa servirebbe questo spreco di miliardi?
Non si tratta a mio parere di miopia o di fomentare meschine mire campanilistiche per volere difendere a tutti i costi il proprio piccolo orto. Si tratta invece di fermare la realizzazione di una cattedrale in un deserto che non risolverà i gravi problemi di traffico che stanno uccidendo Campiglio ma anzi, costruendo impianti, condomini, alberghi e sovrastrutture, danneggerà irrimediabilmente un territorio che fino ad oggi era stato difeso e preservato. Alla luce degli irreparabili danni ambientali accumulatisi in questi ultimi 30 anni, dovuti in gran parte all'ingenuità e a volte l'acquiescenza di molti Sindaci, è fin troppo facile presumere che le cose non cambieranno molto e che gli errori fatti in passato non insegneranno niente se non a sapere camuffare con più furbizia lo spaccio degli interessi di qualcuno come interessi della Comunità.
Non bisogna certo essere laureati per rendersi conto che c'è solo un mezzo per togliere il traffico dalla strada: invogliare gli ospiti a lasciare ferma la propria vettura. Questo succederà il giorno in cui un comodo mezzo di trasporto (vedi Zermatt), collegherà la Val Rendena e la Valle di Sole con Campiglio, la naturale, famosa e bellissima stazione di soggiorno alla quale devono tutt'oggi gran parte del loro sviluppo turistico. Soluzione questa che risolverebbe, tra l'altro, l'annoso e irrisolto problema del collegamento Campiglio con Campo Carlo Magno.
Perciò sembrerebbe fin troppo facile pensare ad un trenino che percorrendo la Valle Rendena arrivasse a Campiglio per proseguire fino alla stazione di Mezzocorona diventando un vero "Collegamento" con la ferrovia Trento-Malè la quale dovrebbe sicuramente rivedere il vecchio progetto facendo in modo di non deturpare con montagne di cemento la bellezza della Valle di Sole.
Se pur profondamente deluso da una classe dirigente corrotta e prezzolata, vorrei chiudere questa mia "analisi" con una nota di ottimismo e di speranza, guardando in avanti nella speranza che la Comunità, alla luce degli errori subiti o commessi, sappia trovare uomini onesti, sensibili ai problemi ambientali, tecnicamente tanto capaci da essere proiettati nel futuro, ma soprattutto che abbiano a cuore le sorti non solo dell'ambiente ma anche quelle dei nostri nipoti che con cinismo ed ignoranza abbiamo forse irrimediabilmente compromesso.
Nell'ultimo trentennio le nostre valli sono state investite da una tempesta di trasformazioni che le ha scaraventate direttamente dal mondo contadino all'età post-industriale. L'economia e la società ne sono uscite stravolte, il paesaggio ne porta segni inconfondibili. I vecchi mestieri legati al mondo di ieri sono in rapida ritirata; le antiche figure professionali quasi del tutto scomparse. Dove sono gli arrotini, i segantini, i "paroloti", questi artigiani cresciuti dalle stesse radici delle Giudicarie? Usciti di scena insieme alla vita pulsante dei prati di mezza costa, allo scampanio delle malghe,al profumo del letame.
E le attività dello spirito, quelle che oggi si chiamano, con un termine meno impegnativo, attività del tempo libero, come si sono evolute? Che cosa ha rimpiazzato il cucito, il ricamo, la lettura, l'economia domestica, la filodrammatica e quel poco d'altro che permetteva ai nostri padri di uscire dai confini dell'angusto recinto dei bisogni primari?
Oggi c'è un'abbondante offerta pubblica e privata in questo campo: le biblioteche, le associazioni e i gruppi, le parrocchie, la scuola, le amministrazioni fanno a gara per allestire calendari di attività formative, culturali e ricreative di ogni genere. Anche nel variegato mondo dell'espressione artistica c'è stata una formidabile crescita delle occasioni sfruttabili sul territorio: si realizzano corsi di disegno, di fotografia, di incisione nel legno, di avvio al teatro, di danza, di musica naturalmente, si promuovono concorsi di letteratura e poesia.
Nell'ambito delle arti figurative il discorso e ancora più interessante e completo. Validi artisti locali e insegnanti impegnati presso le nostre scuole hanno introdotto parecchie specialità e tecniche inedite, contribuendo ad arricchire un panorama di iniziative che ci avvicina ormai alle più mature società nordeuropee.
***
Non penso di esagerare se dico che la grafica nelle Giudicarie è legata specialmente a un nome: Sergio Pedrocchi. Questo bergamasco trapiantato nella zona di Stenico qualche anno fa, figlio di una terra ferace d'artisti, sensibile come nessuna in Italia all'incontro col mondo tedesco, ha fatto conoscere e apprezzare l'arte dell'incisione, avviando già molti discepoli al suo esercizio.
È veramente notevole ormai il lavoro che questo artista ha svolto dal '93 ad oggi, accompagnando decine di aspiranti incisori alla scoperta delle potenzialità espressive di un'arte che basa tutto sulla forza dei segni scavati nella materia dura del metallo, del legno, della pietra.
Pedrocchi non è un accademico, è piuttosto un uomo sanguigno, complesso e spontaneo ad un tempo, che esige dagli allievi, così come prima di tutto da sè, il recupero, attraverso il segno grafico o del disegno o dei colori, della propria parte creativa smarrita all'uscita dell'infanzia quando ci uniformiamo alle richieste esteriori dello stile, del gusto, delle mode, e rimuoviamo l'autentico io espressivo che è in noi. La sua battaglia, personale e di "maestro", mira a far riaffiorare una creatività sepolta dalle convenzioni, a riprendere quel filo della propria comprensione che non è mai disgiunto dall'arte. Le conoscenze tecniche, gli stilemi non devono sancire con la loro vernice dura e luccicante una percezione ferma di sè, oleografica, quanto piuttosto dare più ampia consapevolezza comunicativa al prodotto artistico. L'artista "moderno" sa che può dire sè solo attraverso la tradizione, il suo impiego antiaccademico, che fa emergere i suoi sogni e i nostri mostri.
Pedrocchi è perfettamente cosciente di ciò anche quando "insegna"; in questo è un maestro prima di tutto onesto, non "inganna", non prende le scorciatoie illudendo che l'arte sia dietro l'angolo di una tranquilla passeggiata ristoratrice. Essa è essenzialmente lotta, chiaroscuri, segni ripetuti e inevitabilmente mai uguali a trovare quello che si cerca nella penombra della propria coscienza violentata dai sentimenti patinati e perbene; è, alla fine, catarsi o convivenza con gli abissi dell'anima.
Chiunque guardi le opere di Pedrocchi non può non restare colpito e sgomento, direi, dall'insistenza con cui egli indaga gli stessi soggetti.
La sperimentazione comincia da qui e coinvolge tecniche diverse, accostamenti inusitati, strane dimenticanze, focalizzazioni di particolari. No, l'arte di Sergio Pedrocchi non è descrittiva nemmeno quando deliberatamente, come nel caso dei disegni a matita, si alimenta di soggetti più o meno convenzionali di paesaggio.
Anche nelle cartoline della Rendena c'è intatta la sua ricerca che rimanda a un paziente esercizio grafico della propria psiche.
"Io sono Tardivo, ma tu sei ancora in tempo per quella cosa là".
Silvio voleva parlassi di lui e delle sue poesie sull'Alto Adige, il giornale di Bolzano, dopo la pubblicazione de "I fior pù bei", sua ultima raccolta di versi. La morte improvvisa, ad appena 56 anni, mi ha impedito di accontentarlo. E mi dispiace.
Dopo quel suo invito non ebbi più occasione di incontrarlo, da vivo.
Ce lo ha strappato il 1996, un anno infausto, così come la tradizione popolare trova siano i bisestili, per il mondo culturale della Val Rendena, che ha registrato perdite gravissime con la scomparsa, oltre a lui, di Sergio Bonapace, poeta e pittore (classe 1941), e di Sergio Trenti, pittore (classe 1939).
Senza queste voci, capaci di tradurre in parole, in armonie di suoni e di colori, il sentire forte e genuino, la spiritualità, la ritrosia e gli slanci di una gente, quella dei nostri montanari, spesso incapaci dio comunicare, perché schivi di carattere e chiusi in se stessi, e di interpretarne i sentimenti più profondi e più veri, tutti ci ritroviamo più poveri, più soli.
Silvio - Livio all'anagrafe - Tardivo fu personaggio singolare, di molteplici interessi, mutevoli e disparati, non facile da inquadrare e da capire, a volte introverso, a volte espansivo, ma sempre controllato. Sembrava avesse timore di mostrarsi qual era dentro, di aprirsi del tutto agli altri.
Non penso per timidezza, piuttosto per un senso di sfiducia verso una società che non sentiva sua, tutta affari e business, troppo lontana dalle sue esigenze spirituali. E forse anche per gelosia, per proteggere l'incanto di quell'angolo ideale in cui amava rifugiarsi e trovar conforto.
Così, pur stando in mezzo alla gente e partecipando attivamente alla vita della comunità nelle sue diverse espressioni, sociali, sportive, culturali, penso sia rimasto sempre un isolato, un insoddisfatto, incapace di godere delle gioie in cui godevano gli altri, per un certo verso estraneo alla mentalità dei nostri valligiani.
In lui, nato a Brentonico da un pastore che portava le pecore in transumanza sugli alpeggi del Brenta ed aveva sposato una fanciulla di Pinzolo, troviamo confluire più mondi: il ciarlare espansivo del popolo veneto frenato dal riserbo tipico di chi abita la montagna; la capacità di cogliere, penetrare e considerare la natura negli aspetti più delicati, arcani ed originali acquisita dal padre, intrecciata col senso pratico venutogli dalla madre; la fatica quotidiana, materiale, del suo lavoro di falegname vissuta come limite all'impegno artistico di uno spirito portato alla musica ed alla poesia; un linguaggio, che vorrebbe essere di Rendena, ma tradisce nella costruzione ed il alcune forzature del lessico gli echi della parlata lagarina; l'ambizione ad affermare la sua immagine di poeta in orizzonti culturali sempre più vasti, rimasta un'aspirazione mai soddisfatta nei termini desiderati, nonostante i premi ed i riconoscimenti ricevuti.
Una specie di dualismo quindi la sua vita, la "nostra lingua" fatta "di parole semplici, date solo dalla necessità di spiegarci con poco".
Cantò il quotidiano, la realtà di tutti i giorni, "il sapore di vivere con esperienze dolci e dolorose", la famiglia "vero nido e spunto per scrivere", gli affetti semplici, la natura, gli uomini e le cose con lo sguardo disincantato, a volte pensieroso, talora stupito e persino ironico, di una persona innamorata della sua gente, della vita e del creato, provata dal male, ma sorretta sempre dalla speranza in una società più umana, rasserenata dalla musica e dalla poesia.
I fior pù bèi A i ho gaté lasù, pena dinanc da casa in dal noss prà scundù, frà pianti grandi e afti improfumè di rasa, cul prà, `n du ti curivi senza pinsàr a gnent e mé ca vèrs da ti, vigniva par vardàr, pena `l tò bèl grignar. Chii butulin bèi zalc, russ, azurin e viola, tuc a i ho strapiantè!!! E lì `n chü vass ca brivu chi sora al mé `l mè pugiòl, i ho vis-c a un a un, crössar e vegnar granc lighè a na puisia, ca ghiva scritt insèma a tanc ricordi bèi. Zertu na tèra bona chii fior a i ha truà: a Matarél, a Vigul, da Sanguineto al Po, in du s'ha dismissià, al num ca portu mè: i ho regalè a tuc, e tùc i é vignù granc. I é i fior da la me anima e anca par fortuna a i ha tacà int al salso, in riva a la laguna. Venezia, granda e piciula... l'èra ci via dalònc, cativa da rivàr: ma dop in confidenza chi pace in dal sò mar. Sa i sò balcun vardè i fior da la muntagna lagrami dal mé cör par sempru chi `mplantè.Silvio Tardivo
La Rendena dal Doss (3° al Giuseppe Caprana 1992) Quant ca ti rivi su, e, `nsiminì, ti vardi la tò val da `n cima al munt, al cör par ca `l ti vaga fò di lì e lagrami cuntenti i òc i scunt. Slungada sa la Sarca e sa i sò rì, ti vardi i tò pais, ti perdi al cunt, di stradi, sölvi prè, ben tudurì, chi `s pèrt in cula nebia lagiù `n funt. Ma dintru a ti, na gus par ca la ciama, e ti la senti tantu vulintéra ca fin lagiù, in du ca la si sama, perdendosi `n ta l'aria pù ligera, la ti ricorda cumi fà na mama ca custa chi l'è propriu la tò tèra.Silvio Tardivo
Pubblicazioni della Editrice Rendena
- Tranquillo Giustina, Il deserto armonioso, 1986
- Tranquillo Giustina, Marco da Caderzone, 1987
- Tranquillo Giustina, La bianca fioritura, 1987
- Alberto Mognaschi, Bondo e Breguzzo nel 1800, 1988
- Tranquillo Giustina, L'arazzo e la spada, 1988
- Tranquillo Giustina, La luce d'Arianna, 1989
- Tranquillo Giustina, I principi mandano araldi, 1989
- Dante Ongari, Padre Fabian Barcata, Artista di guerra in Giudicarie, 1990
- Tranquillo Giustina, Il silenzio del fiore, 1990
- Tranquillo Giustina, La Rendena dei malefici, 1991
- A cura di Fiore Bonenti e Alberto Mognaschi, Proverbi a Bondo e Breguzzo,
- Epatta Lunare, 1992
- Alberto Mognaschi, Bondo e Breguzzo dalle origini al 1700, 1992
- Tranquillo Giustina, L'ultima estate, 1992
- A cura di Giuseppe Leonardi, Gigante della Montagna, Guardi il Brenta e pensi
- a Bruno Detassis, 1992
- Douglas William Freshfield, Le immense cattedrali, Introduzione di Tranquillo Giustina, 1993
- A cura di Giuseppe Leonardi, Gueret Rampagaröl, 1993
- Tranquillo Giustina, Il cielo non finisce mai, 1993
- Rendenarte, Artisti e poeti in Val Rendena, 1994
- Alberto Mognaschi, Canzoniere di Bondo e Breguzzo, 1994
- Adi Battista Mussi, Memorie di guerra prigionia e liberazione, 1994
- Loreto Leone - Silvana Parolari, Coscienti sulla strada, 1994
- don Celestino Lorenzi, Rendena Arte e Vita, 1995
- Pasquale Pizzini, Pagine sparse, vicende e storia di Roncone e delle Giudicarie, 1995
- Don Santo Amistadi, Notizie intorno ai sacerdoti e religiosi nativi di Roncone, 1996
- Gli avornielli, collana di poesia
- 1 - Tranquillo Giustina, Il cuore e la rondine, 1994
- 2 - Grazia Binelli, Buciàti, poesie in dialetto della Val Rendena, 1996
- Excelsior, collana di narrativa
- 1 - Tranquillo Giustina, La primavera di Dio, 1995
- 2 - Nepomuceno Bolognini, Fiabe e leggende della Rendena, Introduzione
- di Tranquillo Giustina, 1996
- 3 - Emanuele Mussi, Altri Tempi, Storie del Passato per i nipoti del 2000, 1997
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