Quadrimestrale di cultura, d'attualità, e d'informazione editoriale. - 14 ottobre 1996
Direttore: Piergiorgio Motter - Direttore Responsabile: Valter Paoli
Il periodico, libero strumento di confronto, è aperto a tutti i lettori su problemi della Val Rendena riguardanti l'ambiente, la società, la storia, la letteratura, le tradizioni, l'arte.
Collaboratori
Pubblicazioni della Editrice Rendena
Editoriale
Repetita iuvant, giova riproporre
L'instabilità del quadro politico ed economico mondiale rende sempre più difficile e complesso l'adattamento dell'industria turistica alla disponibilità del mercato. Nasce da questa condizione di dimensione mondiale l'esigenza di un approfondito studio del comparto turistico, indirizzato alla ricerca di una più completa professionalità a livello manageriale, che non può essere lasciata alla "geniale improvvisazione".
Da questo preambolo scaturisce per la Comunità di Rendena l'opportunità di applicare al mercato turistico le regole della gestione d'impresa; di accettare il pungolo della cultura per fare buon turismo; di adottare le scelte del marketing per convincere gli operatori a scegliere il prodotto turistico migliore, in modo da ottenere un ritorno in termini economici, di immagine e prestigio.
Presupposti essenziali sono l'analisi del mercato e dei soggetti concorrenti che vi operano e la conoscenza della domanda, intesa come insieme dei servizi richiesti dai fruitori.
Sulla base di queste informazioni, chi in Valle vuol essere manager turistico deve ricercare gli obiettivi da conseguire; elaborare una strategia che possa sorprendere la concorrenza; tenere conto delle risorse umane e finanziarie di cui dispone; valutare le dimensioni strutturali dell'azienda e della tipologia dei clienti che intende soddisfare, senza trascurare il fatto che l'impresa opera in un contesto caratterizzato da profonda incertezza.
Anche un modesto progetto sul futuro della promozione turistica attraverso la multimedialità, commited to the future, deve considerare la scelta europeista; la conseguente formazione di un mercato economico unico; la possibilità che si modifichi il gioco competitivo; il rafforzamento della concorrenza, tale da provocare la mobilità dei fattori di produzione e dei prodotti.
Per questo le imprese turistiche di Valle dovranno acquisire mentalità imprenditoriale, verificare ed eventualmente ridefinire il proprio posizionamento strategico, in modo da aumentare l'efficienza aziendale e la presa sul consumatore.
Anche i managers turistici, come del resto il periodico "Rendena", hanno oggi la possibilità di raggiungere ovunque consumatori e fruitori, attraverso media diversi e tecnologie informatiche sofisticate, come Internét.
Pertanto sarà opportuno che abbandonino il concetto che la competitività dell'offerta si fonda principalmente su di una proposta d'immagine attraverso il depliant. D'ora in poi dovranno indirizzare il messaggio turistico a concreti valori culturali ed ambientali di elevato significato qualitativo e quantitativo, a testimonianza che la promozione turistica va, in definitiva, identificandosi con l'avanzata culturale di ogni singola valle (l'Alto Adige insegna), ed ognuna fa per sè.
Per questo è importante che la Comunità si convinca di offrire in pool e non in concorrenza paese per paese, addirittura clan per clan, oltre ad incomparabili bellezze naturali e suggestivi paesaggi e panorami anche avvenimenti e manifestazioni che esaltino la dimensione culturale e sportiva, la storia alpinistica e sociale, l'arte e le tradizioni della Valle.
Piergiorgio Motter Editore
Pelugo, 7 ottobre 1996, festa della Madonna del Rosario.
A proposito di Parco
di Giuseppe Leonardi
In assenza o con scarsa disponibilità a motivarsi per la scelta di una cultura ambientale da parte dei residenti che in Rendéna vogliono contare, nessun Ente istituzionale può creare un impianto normativo di tutela, qualificato a gestire un'area attrezzata a parco naturale, perchè è destinato inevitabilmente all'inoperosità per ripulsa e per rigetto.
Infatti il Parco Adamello Brenta nella sua gestione sta vivendo una vera e propria via crucis a causa di una contestazione molto pericolosa. E con l'approvazione (a maggioranza relativa dei rappresentanti dei Comuni proprietari e peggio ancora con un provvedimento unilaterale del commissario ad acta) del progetto di Piano-parco Adamello-Brenta (strumento indispensabile per la legittimazione dell'operatività dell'Ente), parte della popolazione di Rendéna si sentirebbe usurpata del diritto atavico di essere il soggetto gestore principale nell'ambito del rapporto uomo-montagna, in cui l'ambiente è risorsa rinnovabile da gestire con oculatezza, secondo le coordinate dello sviluppo sostenibile.
I due Parchi naturali istituiti nel gruppo dell'Adamello con procedure legislative lunghissime e con copiose dotazioni di denaro pubblico, sono serviti, per oltre un decennio, più come slogan pubblicitario per commercianti di prodotti tipici ed operatori turistici, che come effettivi strumenti di tutela e gestione del territorio. E ciò non per colpe ed omissioni dell'attuale Giunta esecutiva, perché il progetto presentato per l'approvazione è ciò che di più avanzato nel campo protezionistico ci sia in Europa e che fa parte della cultura avanzata di illuminati programmatori riconosciuti in campo internazionale. L'accusa che a Loro fanno i contestatori-distruttori, secondo i quali "il piano-Parco è stato calato dall'alto", va ribaltata in: "il piano-Parco non potrà mai essere recepito dall'incultura di chi lo contesta a priori e si rifiuta di studiarlo, per cominciare a capirne la filosofia di ineludibile prospettiva economica a tempi lunghi".
Il parco naturale Adamello-Brenta copre poco più di 618 chilometri quadrati in territorio trentino ed evita accuratamente le zone urbanizzate. É stato istituito nel 1967, ma solo con legge provinciale 18/1988 è stato dotato degli strumenti necessari per operare, la quale istituiva gli enti di gestione dello stesso, cercando di mediare le aspettative e le esigenze delle popolazioni interessate. Ma non vi è riuscito.
Già nel 1995, nel "rapporto di sintesi" elaborato dal professore Guido Ferrara, si può leggere alla pagina 19 che "esiste il pericolo di una frangia denigratrice che con tutti i mezzi, anche il più subdolo, che è quello di assenza totale e sorda del confronto e del dialogo, ostacola tutto il Piano". E Ferrara così conclude la lunga dettagliata relazione: "Il Parco Adamello Brenta non è e non dev'essere uno strumento dei cittadini per togliere agli abitanti residenti il potere di decidere sul futuro del loro territorio...non per questo deve diventare una "riserva indiana" (leggasi dei forestieri), un luogo negato al divenire della vita moderna, in cui nulla è consentito, magari per compensare o redimere i delitti che altri in contesti diversi (leggasi svendita incontrollata e dissacrante del territorio), hanno compiuto "contro la natura".
Sul versante lombardo il Parco naturale Adamello venne istituito nel 1983 dalla Regione Lombardia su di una superficie di 510 chilometri quadrati che copre il versante W del gruppo montuoso, scendendo fino al fondo della Valcamonica, ma si tratta di un'istituzione ancora allo stato poco più che sperimentale.
Le rocce intrusive che compongono il massiccio cristallino dell'Adamello-Presanélla (granodioriti e tonalite) sono composte globalmente, senza distinzione di confini amministrativi, in gran parte da biotíte, feldspáto, orneblénda, plagioclásio e con piccole quantità di quarzo e mica. Premute verso l'alto da quelle forze immani che stavano creando le Alpi, queste rocce, si sollevarono, circa trenta milioni di anni fa, spingendo sopra di loro la copertura sedimentaria del Triassico, che col tempo fu completamente asportata dagli agenti atmosferici.
La divisione, fra due diversi Enti di gestione, da nord a sud, di un areale del tutto omogeneo per le origini geologiche, per la cultura agricola e per le specie vegetali ed animali (che vagano senza confini), non è certo funzionale alla corretta gestione del territorio, alla tutela dei ghiacciai, delle vedrette, delle acque e della fauna, e, in più, alla comprensione compenetrata degli abitanti, trentini e camuni, solandri e giudicariesi.
A proposito: a partire dall'anno 1968 "Gli Amici del Mandrón" si davano appuntamento una volta all'anno presso il rifugio Mandrón, allora gestito da Teresa Binelli. Ospite d'onore era la guida alpina Sperandìo Zani di Temù che arrivava accompagnato da altre prestigiose guide di Ponte di Legno. La partecipazione delle Guide di Rendéna e degli alpinisti abitanti nei due versanti E-W dell'Adamello era spontanea e ispirata ai valori dell'amicizia e dell'alpinismo e per niente turbata dal fatto di vivere in ambiti provinciali differenti. Anzi era occasione di scambi di conoscenze e collaborazioni valide. Ebbene quella festa che accomunava le valli Rendéna e Camónica, ora non si rinnova più, sabotata, come tutte le belle iniziative spontanee e qualificate.
Inoltre in tema di biodiversità, gli Organi preposti all'ambiente delle due Province, sui versanti sia trentino che bresciano, hanno ignorato il problema dei corridoi faunistici, strisce più o meno ampie e lunghe di territorio naturale, adibite appositamente al collegamento delle aree protette distanti, tali da acconsentire agli animali di spostarsi impunemente dall'una all'altra parte.
Hanno inoltre ignorato l'opportunità dei tunnel sottostanti le sedi stradali, tali da acconsentire alla fauna i dovuti attraversamenti in piena libertà. Incidenti anche gravi per i danni ai mezzi ed anche fisici alle persone, accaduti lungo le strade che accerchiano l'Adamello sui quattro versanti, stanno a dimostrare che al problema dell'attraversamento stradale della fauna, né la provincia di Trento, né quella di Brescia hanno dato il dovuto interessamento. Al loro posto permangono i confini di bandita delle sezioni di caccia, validi unicamente per quantificare i prelievi degli abbattimenti ed il rilascio dei premessi. E pensare che le popolazioni residenti nell'Alaska hanno preteso che il più grande oleodotto al mondo (che lo attraversa da nord a sud) di oltre 600 Km, venisse costruito sospeso per acconsentire il passaggio dei karibù e dell'altra fauna stanziale. Il lettore rifletta un poco ai maggiori oneri, dell'ordine di miliardi di dollari, sborsati dall'Ente petrolifero!
Di queste omissioni strutturali non sono per nulla responsabili gli Enti di gestione dei Parchi.
In questo quadro per niente incoraggiante potrebbe essere meritevole di attenzione la proposta di Mountain Wilderness, promotore Reinhold Messner, che con il progetto Peace intende includere (e sicuramente prima o poi le autorità europee responsabili con i miliardi che hanno in mano lo otterranno) il gruppo Adamello-Presanélla in una grande area protetta delle Alpi Retiche, che possa garantire a livello europeo il valore dell'integrità di queste splendide montagne.
Paralellamente (affinché la popolazione che vive nella porzione del versante SE del massiccio non venga a trovarsi completamente spiazzata e poi arringhi che "le decisioni sono state prese da quelli da fuori" una proposta concreta potrebbe essere quella di far sorgere l'istituzione di una libera associazione denominata Gli Amici dell'Adamello (già da me inutilmente proposta all'ex presidente Carlo Eligio Valentini).
Essa potrebbe parallelamente e armoniosamente:
- promuovere nei territori catastali di Rendéna-Giudicarie il riconoscimento di un'Oasi Wilderness, impervia, omogenea e selvaggia, ossia un'area naturale, priva di vie di attraversamento motorizzato, preservata rispetto al resto del territorio antropizzato;
- tutelare la selvatichezza come valore naturalistico e psicologico, da vivere per chi la percorre a piedi, in assenza di divieti di uso, ma con un uso minimo del territorio, con un escursionismo acculturato, con un esercizio della caccia contenuto, con un taglio dei boschi oculato;
- farsi garante dell'iniziativa affermando che ricorderà sempre a tutti i partner che il valore primo è culturale e che una simile area non è e non sarà mai considerata accessibile ad un turismo di massa, pena la perdita della sua peculiarità;
- garantire gli inalienabili diritti cosortili di uso civico a favore della popolazione residente, aggiornati alle necessità e convenienze attuali.
Le finalità associative potrebbero essere contenute in un decalogo-protocollo, vincolante per gli associati, che racchiuda cinque punti di orientamento culturale:
1. Per una filosofia che consideri la natura un valore in sé e patrimonio spirituale per l'uomo, che esalti il suo valore morale e di bellezza e l'emotività che suscita nell'animo umano, affinché sia maggiore il suo rispetto e siano più sicuri e duraturi gli impegni presi a sua tutela.
2. Per un più giusto rapporto tra l'uomo e la natura ed un uso equilibrato dell'ambiente, anche se a fini ricreativi e di godimento, tramandando di generazione in generazione sempre uguali patrimoni ambientali.
3. Per l'approvazione, da parte degli organi legislativi ed altri organismi che gestiscono il territorio, di provvedimenti speciali (sperimentali e sempre modificabili se inadatti), che tutelino i valori della natura selvaggia; affinché sia garantita per sempre e per principio l'intangibilità delle aree dichiarate naturali e vi sia proibita ogni forma di motorizzazione ed antropizzazione.
4. Per un controllo ed una supervisione morale a favore della natura sulle attività di gestione degli organismi che amministrano l'area protetta; affinchè i primari interessi collettivi della popolazione residente non debbano mai essere messi da parte o sminuiti per fare quelli del singolo speculatore.
5. Per il riconoscimento legittimo di un diritto di proprietà morale sulle bellezze naturali a prescindere dalla proprietà catastale dei suoli, affinché ogni valore della natura non sia più considerato solo in un'ottica economica con la conseguente negazione del valore estetico e spirituale che lo stesso bene possiede.
Sulla base di questi principi di difesa, l'Ente Parco Adamello1) non potrà mai espropriare le Comunità locali dei diritti sanciti, né impedire ai censiti la raccolta della legna, dei funghi e la frequentazione della montagna; dovrà inoltre garantire la coltura delle cave di pietre ad uso civico, esclusa la commercializzazione industriale.
Tutto ciò comporta l'individuazione e poi l'impegno di un "teamwork" che per prima cosa dimostri l'umiltá di imparare a gestire il territorio non in una formazione politica, ma ad una scuola di governo del territorio; per seconda, che accetti di sottoporsi ad un'immersione formativa sui temi dell'autonomia, dell'economia, dell'amministrazione territoriale; sull'apparato legislativo comunale, provinciale, nazionale ed europeo, cui sono sottoposte le aree protette a parco. Cioè dovrà prima conoscere, per poi suggerire di amministrare e governare. La battaglia a favore del Parco, non si vince da soli, ma con un progetto condiviso da più soggetti.
Una carta di regola, quindi, per un ambiente da tenersi in equilibrio per il terzo millenio aggiornata su quelle ataviche del secondo? Si, certamente, perché i valori e le preoccupazioni sono sempre gli stessi, con la differenza che ora essi sono più a rischio.
Nella probabile ipotesi, che la neonata Maria delli Zulberti di Caderzone, figlioccia di battesimo di "domina Dominica uxor domini Jacobi Bertelli"2) sia un'illustre antenata dell'attuale presidente, democraticamente designato, dell'Ente Parco, un appoggio di solidarietà e di incoraggiamento dal Periodico Rendéna giunga al dott. Zulberti, affinché in questi "allucinati giorni" del 1996 riesca a far prevalere come Lui stesso ha pubblicamente dichiarato "quello strumento che in futuro permetterà di gestire il Parco che esiste in forza di legge dal 1988 con precisi confini e vincoli". La Redazione si augura ch'Egli possa interpretare e superare il travagliato momento storico di Rendéna, come a suo tempo fece l'illustre Ser Jacopo Bertelli, quando il 30 aprile 1583 (nella piazza o corte di casa Bertelli) ebbe a redigere e a far approvare la revisione della famosa Carta di Regola del 1506, - lasciando ai posteri il miglior saggio della sua preparazione giuridica e della sua mirata professionalità -, come ha scritto lo storico Tranquillo Giustina.
Intanto a fine stagione estiva 1996 si ode il lamento degli operatori,
commercianti e albergatori sul calo delle presenze, che sta interessando
il comparto turistico, mentre nella sede del Parco sono in crescita le
richieste di informazione, di documentazione, anche di interessamento sulle
sorti dell'istituzione, con contatti personali, telefonici ed epistolari,
a conferma che la domanda va sempre più verso la scelta di un turismo
naturalistico ed ambientale. Ebbene, di fronte ad un andamento negativo
stagionale delle presenze e ad un cambiamento delle scelte del turista,
del resto già ampiamente preannunciate, viene logico accettare la
proposta abientalista che questo periodico ha già ampiamente formulata:
fate funzionare il Parco e forse salverete l'economia turistica locale
a buon livello!
Note
1) Il Parco Adamello-Brenta è escluso dal novero dei 19 Parchi Nazionali e dalle sei aree protette (possibili futuri parchi), legalmente riconosciuti dallo Stato Italiano, che provvede a finanziarne l'attività, anche attraverso dotazioni erogate dalla Cee. In deroga, accertato il buon funzionamento dell'Ente provinciale "Parco Paneveggio - Pale di San Martino", la Cee interviene con il 40% di finanziamento su di un programma quinquennale 1995/1999 dell'ordine di miliardi di lire, per realizzazioni di recupero ambientale di inestimabile valore. Andare a vedere, per credere!
2) Primo libro dei battezzati della Pieve di Rendena anno 1576, in Gli Eredi del Giglio, il Garzoné supplemento al n.9 gennaio 1995, periodico semestrale di informazione del Comune di Caderzone, testi di Tranquillo Giustina.
Chiesa e natura.
el Rampa
- Se si continua così, l'umanità va incontro ad un apocalittico disastro ecologico. -
Questo è l'avvertimento contenuto nel messaggio (Angelus di domenica 24 marzo 1996) che Giovanni Paolo II è tornato a lanciare a quella parte di umanità, tesa soltanto "all'uso smodato della natura per avidità e per intemperanza". Non è la prima volta che questo Papa, molto attento ai problemi di fine millennio, affronta le tematiche ecologiche, non soltanto da un punto di vista religioso, ma anche secondo un'ottica scientifica e tutto sommato umanistica. Ma, nell'occasione che Gli si è presentata, quelle impostazioni sono state sviscerate con chiare proposizioni che hanno colpito gli oltre ventimila fedeli raccolti a mezzogiorno per la recita domenicale dell'Angelus, in piazza San Pietro; e non soltanto essi, perché fra quelli, sia pure a distanza, davanti alla televisione per sentire il Papa, c'ero anch'io e chissà quanti altri.
Apparso in ottima forma fisica, la voce tornata robusta, il volto disteso, il Pontefice ha colto l'occasione dall'inizio della primavera e dal perdurare della Quaresima, per puntare l'indice del j'accuse contro coloro che poco o nulla si curano del lacrimevole stato della natura nei cinque continenti della terra, esaltando "la pratica del digiuno, propria del periodo ecclesiale, che insegna la moderazione nell'uso delle cose e quindi anche il rispetto per la natura, il cui l'abuso rischia di portare al disastro ecologico". Apocalittico, o press'a poco, considerando che siamo vicini al termine di un altro millennio.
Il digiuno e le altre pratiche proposte dalla pedagogia ecclesiale, non soltanto non implicano il disprezzo per il creato, come potrebbe apparire, ma anzi presuppongono una considerazione elevata del mondo materiale e possono essere viste come antidoti all'intemperanza ed all'avidità, contrastando "con quel senso dell'avere e del godere ad ogni costo, che spinge l'uomo a farsi padrone assoluto di quanto lo circonda". Rispettare l'ambiente, insomma: ecco una norma tassativa da seguire. E la dilagante "cultura del dominio" ha come esito negativo "un uso distorto della natura che ne deturpa il volto, ne pregiudica gli equilibri e non si arresta nemmeno di fronte alla minaccia di un disastro ecologico". Si, è vero che la Bibbia dice che il disegno divino assegna all'uomo "una posizione privilegiata". Ma questo non lo autorizza per nulla "a spadroneggiare sulla natura, tanto meno a devastarla".
Monsignor Ersilio Tonini, arcivescono emerito di Ravenna e cardinale di Santa Romana Chiesa, ha chiarito recentemente la visione che la Chiesa cattolica ha del rapporto tra uomo e natura, puntualizzando un concetto fondamentale:
- L'uomo è il punto centrale della Creazione, ma è anche solo uno degli elementi che compongono l'armonia dell'Universo. Nessuno ha il diritto di confiscare al Creatore ciò che ha fatto senza l'intervento dell'uomo -.
Nel dibattito sull'ambiente Egli fa entrare autorevole una voce antica, quella della Chiesa, perché tra le ottocento pagine del Catechismo della Chiesa Cattolica, uscito sul finire del 1992, non solo è contenuto un preciso richiamo ai principi della fede e della morale cristiana, ma c'è anche la chiara consapevolezza, espressa nel primo capitolo, che "le risorse della natura devono essere conservate e rispettate".
Nel quinto paragrafo, intitolato "Il cielo e la terra", si legge tra l'altro: "Le varie creature, volute da Dio nel loro proprio essere, riflettono, ognuno a suo modo, un raggio della infinita bontà e sapienza di Dio".
Da questo assunto emana un ordine categorico che suona come un nuovo precetto morale, da monsignor Tonini così espresso:
- Per questo l'uomo deve rispettare la bontà propria di ogni creatura, per evitare un uso disordinato delle cose, che disprezza il Creatore e comporta conseguenze nefaste per gli uomini e il loro ambiente -.
Ma le considerazioni "ecologiche" contenute nel nuovo Catechismo non si fermano qui, perché nello stesso paragrafo c'è anche un richiamo al tema delle biodiversità: "L'ordine e l'armonia del mondo creato risultano dalla diversità degli esseri e dalle relazioni esistenti tra loro".
E ancora: "Le innumerevoli diversità e disuguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a sè stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre".
E questo soprattutto vale anche per l'uomo. É lui, secondo la Chiesa cattolica, l'essere perfetto, il vertice dell'opera della creazione, il signore del mondo, a cui spetta la custodia del creato.
Un duro monito etico e morale rivolto all'uomo ma anche ai governi dell'Occidente è contenuto nell'ultima enciclica "Evangelium Vitae" di Papa Carol Wojtyla. Un grido poderoso e accorato sul tema fondamentale "non uccidere"; un no secco contro l'uso della violenza esercitata in tante maniere: dalle guerre, dall'iniqua distribuzione delle ricchezze, dal traffico delle armi (le maledette mine anti-uomo), dalla diffusione della droga e dal dissesto ecologico. Una conclusione ovvia in base ai principi della Fede, ma destinata a far discutere molto fra i dissacratori e gli ambientalisti.
Di uomo ed ambiente monsignor Tonini ha discusso da protagonista con il giornalista Enzo Biagi nella trasmissione di Raiuno "I dieci comandamenti" ed anche come collaboratore nel settimanale "Epoca". Il Cardinale in essi così si è espresso:
- Il tema della natura è già fortemente presente nel cristianesimo delle origini, negli scritti dei padri latini e particolarmente in quelli greci, per i quali il rapporto tra uomo e creato è fondamentale e fa parte di quell'umanesimo di cui è intrisa tutta la cultura ellenistica. Quanto al fatto che questo tema riemerga oggi, non vuol dire che non sia più stato avvertito. La Fede e la dottrina cristiana sono molto complesse ed è naturale che alcuni dei valori avvertiti da sempre come ovvii si impongano all'attenzione a mano a mano che vengono messi a rischio. É quanto accade, ad esempio, nei confronti degli organi del nostro corpo, che ci preoccupano dal momento in cui entrano in crisi ed avvertono dolore. Lo stesso è capitato nel caso dell'ambiente. L'attenzione c'è sempre stata, anche se per la Chiesa era ovvia e faceva parte del dovere di rispettare il creato. Ma forse abbiamo dato per ovvio ciò che non lo era più. Rispetto dell'ambiente e libertà umana sono due rami della stessa radice. L'ambiente e la natura sono sacri perché destinati all'uomo e alla sua perfezione. Bisogna considerare due aspetti della natura: quello della sua utilità ai fini della vita corporea e quello del suo significato. Da una parte c'è l'insieme delle risorse, di quelle che i latini chiamavano "beni fungibili", che l'uomo ha il compito di individuare e usare, dall'altra il loro significato profondo che è nutrimento ed elevazione per lo spirito. La purezza dell'ambiente, la sua "verginità", va intesa quindi non solo come conservazione delle risorse, ma anche come rispetto delle perfezioni e del linguaggio che esse si portano dentro. Già lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564 - 1642) affermava: "Io studio nelle pietre i pensieri e le perfezioni che Dio via ha immesso". Ed il filoso tedesco Immanuel Kant (1724 - 1804) nella formulazione dell'imperativo categorico asseriva: "Comportati in maniera che ogni tua azione non debba compromettere la vita delle generazioni future".
Che nel creato vi sia un ordine è innegabile: dalla vita animale alla vegetale, dal mondo minerale al susseguirsi periodico delle stagioni e al movimento degli astri nel firmamento. La filosofia stessa nasce dal momento in cui, dopo l'osservazione e lo studio dei fenomeni fisici, l'uomo si accorge che il molteplice si riassume e si completa nell'uno. Non in un'unità composta da elementi "accatastati", ma ordinati secondo un "kosmos", che vuol dire ordine, una gerarchia precisa in cui tutti gli elementi sono disposti in armonia che costituisce una perfezione ulteriore all'esistenza dei singoli. Al caos, che vuol dire disordine, appartiene talvolta l'unico atomo ribelle e trasgressivo, anarchico e dissacratore, sovvertitore e distruggitore: l'uomo.
Il vescovo Sergio Sebastiani è l'uomo scelto da Giovanni Paolo II per guidare l'organizzazione giubilare dell'anno 2000.
In una lunga intervista rilasciata al giornalista Orazio La Rocca del quotidiano "Repubblica" e pubblicata martedì 4 luglio 1995, il vescovo dice:
- In sostanza se il 1990 ha segnato la fine del marxismo il 2000 potrà segnare la fine del capitalismo selvaggio e la riconciliazione dell'uomo con l'ambiente -.
- Cosa c'entra l'ambiente? - chiede il giornalista.
Risposta di Sebastiani:
- C'entra. Nel giubileo dell'Antico Testamento la terra non veniva coltivata per un anno. Per le campagne era un periodo di riposo e di rigenerazione. Oggi potrebbe significare un più consapevole avvicinamento dell'uomo verso la natura, un rilancio dei temi ecologici -.
- Col Giubileo - aggiunge La Rocca - la Chiesa Cristiana potrebbe avvicinarsi anche alle associazioni ambientaliste laiche come Cipra, Greenpeace, Mountain Wilderness, Wwf e Tam? -
- Sicuro. In nome della difesa della natura, si potrà rafforzare la conoscenza tra Chiesa e associazioni e movimenti, che con serietà e competenza lavorano per difendere l'ambiente. -
Vigiarúm!!
E per concludere, aggiungo io, i veri problemi ed i conflitti esistenti nell'area del Parco Adamello Brenta ed in genere sulle montagne non sono dovuti a coloro che vi praticano le antiche attività contadine e rurali, o le più recenti sportive a titolo individuale o associativo.
I problemi ed i conflitti si creano invece fra la promozione turistica di rapina ed i disturbi che ne derivano, tra richieste primarie di svago e divertimento ed il consumo indiscriminato di territorio ad uso ludico, ossessivo, sfrenato.
Papa sciatore
di Luciano Colombo
Sullo straordinario soggiorno al passo della Lobbia Alta, compiuto nel mese di luglio 1984 dal Papa Giovanni Paolo II e dal Presidente Sandro Pertini, la stampa di tutto il mondo scrisse quelle poche informazioni che conosceva. Non si seppe mai, fra l’altro, che per motivi di riservatezza, la visita dei due illustri ospiti doveva rimanere assolutamente segreta e che fu l’imprevedibile Presidente Pertini, dimentico di quanto convenuto con il Sommo Pontefice, a divulgare la notizia della loro presenza sul gruppo montuoso dell’Adamello. Quanto segue, è la cronaca di quei giorni vissuta da un gruppo di carabinieri, trentini di nascita o d’adozione, atei o credenti, che si trovarono inaspettatamente partecipi di un memorabile avvenimento.
Come riferì il "Corriere della Sera" del 17/7/1984, il Santo Padre, nel pomeriggio del 13/7/1984, invitò il Presidente Pertini a compiere una gita sull’Adamello. Con l’assenso del Presidente, l’Ispettorato Generale di P.S. presso il Vaticano programmò, scegliendo uomini ed itinerari di volo, tutti i servizi di sicurezza che l’avvenimento richiedeva. Alle ore 17 del 14 luglio 1984 il Questore Paolo Chiossone, alla presenza del Tenente Colonnello dei Carabiniere Alessandro Galli e del Vice Prefetto di Trento, mi propose di organizzare e dirigere i servizi di sicurezza in alta quota. Quasi incredulo, accettai l’incarico. Fra le varie disposizioni ricevute, "non avrei potuto impedire il passaggio degli alpinisti, perché non era costituzionalmente previsto, ma dovevo trovare il modo, signorile e diplomatico, per evitare il loro arrivo al rifugio Caduti all’Adamello". Selezionai i dieci migliori carabinieri di cui l’Arma disponeva in ambito provinciale e quali responsabili dei settori che andavano controllando, i carabinieri Rino Pedergnana, Josef Rainer e Mario Tamburini (silenziosi eroi d’innumerevoli soccorsi alpini).
Alle ore 14,30 del 15 luglio 1984 iniziammo, nel massimo segreto, il nostro servizio sui ghiacciai del Mandrone e della Lobbia. Dopo un accurato sopralluogo della zona, al fine di individuare l’eventuale presenza di persone, dislocai i carabinieri nei punti convenuti. Due carabinieri raggiunsero la Cresta Croce, a quota 3.278, da dove potevano dominare tutto il territorio glaciale e quindi segnalare eventuali arrivi dai passi: "Toppette"-"Lares"-"Cavento"-"Salarno"-"Brizio"-"Venerocolo". I rimanenti militari, suddivisi in quattro pattuglie intercambiabili, rimasero sui ghiacciai del Mandrone e della Lobbia.
Il velivolo presidenziale, scortato da due elicotteri dell’Arma dei carabinieri, alle ore 10 del 16/7/1984 giunse al passo della Lobbia Alta. I due capi di stato, accolti e festeggiati da tutti i familiari di Martino Zani, salirono poi al rifugio.
Le prime ore di servizio trascorsero tranquillamente. L’effettivo pericolo determinato da centinaia d’ordigni bellici, disseminati sui ghiacciai, costituì il presupposto per dissuadere alcuni alpinisti ad avventurarsi in direzione del rifugio. Tutto sembrava svolgersi per il meglio quando, alle ore 13,15 dello stesso giorno, Lino Zani mi chiamò via radio dicendomi: "Le passo il Presidente della Repubblica che desidera parlarle". Subito dopo, riconobbi l’inconfondibile voce del Presidente Pertini che mi disse: "Maresciallo, scriva!"-"Quirinale"-"Antonio Maccanico"-"Comunichi subito alla stampa, come io l’ho formulata, perché‚ ormai tutti sanno che io sono qui"-"A nessuno è stato concesso di venire qua"-"Saluto tutti gli alpinisti"-"Giungano i miei saluti"- "Ha scritto?". Risposi di sì, poi: "A lei, carissimo maresciallo, ed ai suoi carabinieri, i miei saluti"- "La invito a pranzo". Subito dopo telefonai direttamente al dott. Antonio Maccanico, attuale Ministro delle Poste, al quale riferii i desideri del Presidente Pertini. Non mi fu possibile partecipare al pranzo Presidenziale perché, paventando quanto poi sarebbe accaduto, persi del tempo per informare i vari "servizi" sulla situazione che si stava disegnando.
Alle ore 15 del 16/7/1984 il Presidente Pertini, dopo un abbraccio con il Santo Padre, lasciò il passo della Lobbia Alta. Poco dopo, la notizia fece il giro del mondo. Una torma di credenti, curiosi e giornalisti, sciamò in Valle di Genova. Tutti volevano andare da Sua Santità. Il servizio di sicurezza, predisposto per agire segretamente, a causa dell’improvvisa sortita del Presidente Pertini, si trovò a fronteggiare, con un’esigua forza, una situazione anomala, non prevista e con direttive superate dagli eventi. Inoltre, in un’Italia così permissiva, apparve inconcepibile dover mantenere un divieto di transito in quella vasta zona del gruppo montuoso dell’Adamello. Per questo ed altri motivi, il comandante del Gruppo carabinieri di Trento mi suggerì: "Di valutare, di volta in volta, la convenienza di fare transitare chi voleva andare dal Papa". L’ordine del mio colonnello, che mi lasciò libero di valutare tutte quelle situazioni che si sarebbero prospettate, mi onorava; tuttavia, e solo per alcuni attimi lunghi quanto una vita, mi sentii angosciato. Ero consapevole di essere solo un semplice comandante di stazione carabinieri, ma il destino mi aveva proiettato in una dimensione dove urgeva prendere immediate decisioni sulla sicurezza del Sommo Pontefice. Tutti ricordano lo sparo, quel volto sofferente, e la corsa che in San Pietro, a Roma, divenne poi tragica realtà. Su questo timore, sempre presente in un qualsiasi servizio di sicurezza, ritrovai la freddezza indispensabile per riordinare i miei pensieri; la missione, sarebbe proseguita con l’obiettivo di non consentire il passaggio ad alcuno.
La notte seguente fu vissuta con apprensione. Nel silenzio siderale della Cresta Croce, il carabiniere di vedetta notò, con il visore notturno, che due figuri stavano serpeggiando sul ghiacciaio del Mandrone, nella zona compresa fra il sentiero 236 e la località denominata "ferramenta". In contatto radio e pronti ad ogni evenienza, seguimmo, passo per passo, ora dopo ora, l’escursione dei due sconosciuti sino in prossimità del rifugio, dove furono fermati ed identificati. Si trattava di un idraulico di Giustino e di un giornalista. Nel frattempo, erano le ore 04, il parroco Don Rinaldo Binelli entrò al rifugio Mandrone. Il carabiniere Josef Rainer, che era sceso dai ghiacciai per ricaricare le batterie degli apparati radio, salutò il sacerdote e gli chiese: "Dove va, signore reverendo?". Il caro Don Rinaldo, che solo dal suo Papa voleva andare, non se la sentì di chiedere quel favore che il carabiniere gli avrebbe negato; e ritornò nella propria valle.
Alle prime luci dell’alba, il carabiniere Rino Pedergnana, di servizio sul ghiacciaio Mandrone, mi chiese l’autorizzazione per fare passare un piccolo alpino residente a Pinzolo. In seguito al mio diniego, il carabiniere, con un velo di tristezza, proruppe in una concitata domanda: "La prego, facciamolo passare!"-" Zio can, quando ié crepadi no i ga avù nanca el témp de énsegnarse!". Il richiamo storico mi gelò il sangue. Pensai ai nostri alpini che con il loro sacrificio arrossarono le nevi dell’Adamello, esattamente la dove il Vicario di Cristo sarebbe poi arrivato, molti anni dopo, per pregare e meditare. Intuii che la bestemmia pronunciata dal generoso carabiniere non era un’imprecazione rivolta al suo Dio, bensì un atto di fede nei valori in cui credeva. Dopo circa due ore, il Santo Padre, avvertito dell’arrivo, accolse e strinse a se il piccolo alpino.
Il servizio di sicurezza continuò fra cento e più episodi di religioso fervore ma anche tra la chiassosa curiosità di tanti suoi protagonisti. Tra i numerosi inviati speciali che giunsero nell’alta Valle di Genova, Carlo Guardini, giornalista del quotidiano Alto Adige, fu quello che seppe cogliere e descrivere, più d’ogni altro, quei magici momenti di saga alpina. Nell’editoriale del 18/7/1984 scrisse, quale aneddoto o curiosità, che "Ai carabinieri in servizio da decine d’ore sul ghiacciaio con il compito di bloccare chiunque, era stato detto che si sarebbe svolta una grande opera di bonifica di materiale bellico inesploso. Molti, quando s’è parlato loro del Papa, sono caduti dalle nuvole". Il giornalista non poteva conoscere la verità ma il suo racconto da un’idea, quale testimonianza del tempo, come i dieci carabinieri riuscirono a mimetizzarsi ed a contrastare "l’assedio incessante da parte di cronisti e fotografi scatenati".
Giovanni Paolo II partì alle ore 19,30 del 17/7/1984. La campana, simbolo dei "caduti all’Adamello", si mise a rintoccare e quella vibrazione, carica di sentimento e sempre più lontana, ci seguì sin dove sarebbe terminato il ghiacciaio. Avvertimmo tutti un senso di malinconia, come se un carissimo amico ci avesse improvvisamente lasciato. Quando passammo davanti alla chiesetta del Mandrone, senza sapere il perché, ci fermammo. Chi pregò, e chi non sapeva recitare una preghiera mormorò una parola di ringraziamento. Era la fede, che bussava alla porta dei nostri cuori.
La Flanginéch
di Giuseppe Leonardi
Microcosmo a rischio
Hai donato a me vagabondo della montagna
quelle gioie emotive che alla fin fine
rappresentano la punta di diamante
dell'alpinismo.1)
Dal Passo del Gotro, posto alla base della Pala dei Mughi, dove una selletta erbosa costituisce la convergenza sommitale delle valli d'Agola e d'Algóne, in versante ovest scende precipitosa, da circa 1800 m d'altezza, una lunga valle, scavata nei millenni dall'acqua della Flanginéch. Essa ingrossa poco sotto la Malga dal Brögn da l'Ors e scorre incassata lungo balze rocciose fino al paese di Giustíno, posto a 800 m, dove, nella piana, diventa un affluente di sinistra della Sarca. Fin dalla sua sommità due larghe costiere, unitarie e monovalenti, si espandono a nord e a sud con ripidi fianchi, rivestiti da fitta foresta arricchita da tutte le specie cespugliose ed arboree presenti in Rendéna. Una strada forestale scende per la massima parte in sponda destra fino al paese. Da essa lungo le "zete" tortuose, si diparte un'intensa ramificazione di sentieri in senso trasversale, che raggiungono le spianate dei pascoli riposti nelle innumerevoli vallecole nascoste.
Per giorni interi mi sono addentrato nelle due costiere con la curiosità e con la passione del montanaro, sul finire d'un autunno che sembrava ribellarsi al verno incipiente. Qua e lá le foglie cadevano dagli alberi palesando l'appressarsi del riposo pei vegetali.
`Na föia d'aftún 2)
`Na föia curiúsa
la lása `l sò rám
la vá da par öla
purtáda dal vent.
L'é zálda
l'é bèla
amú cáfda di sul
`na föia d'aftún.
La cór dré ali núguli
la va e la végn
la grígna e la plánç
la pensa ala pianta
chi ghi völ amú bén.
l'é bèla
amú cáfda di sul
`na föia d'aftún.
Ero attratto dall'occasione di effettuare comode passeggiate tra boschi e spianate prative, illuminati dalla luce radente dei raggi solari che accendevano i variegati colori autunnali e con le visioni di panorami incantevoli: ad oriente la dolomia del Brenta, ad occidente i picchi cristallini dell'Adamello e della Presanella.
Nel vagabondare mi sono imbattuto in due aspetti tipici del paesaggio: quello alpino-pastorale, trasformato dal lavoro dell'uomo e quello degli insediamenti rurali, costruiti per la residenza estiva. Ebbene mi sono accorto che le due forme non sono disgiunte, anzi costituiscono un plesso di impareggiabili reperti di un modello di occupazione di un'area tra le più impervie che io conosca in Rendéna.
Sicuramente una condizione di isolamento geografico, una tradizione secolare di orgogliosa autonomia ed un ancestrale spirito di attaccamento alla propria terra, hanno creato nella stirpe che abitava la località di Sopracqua (Giustíno) le condizioni per la conservazione, ancor oggi vitale, delle forme più antiche del rapporto tra la natura e l'uomo, specifiche di un processo di libera e spontanea lotta per la sopravvivenza del contadino di montagna, in condizioni di vita estreme.
Scarpinando di sentiero in sentiero, di balza in balza, ho potuto leggere nel paesaggio le forti impronte e le ultime caratterizzazioni del boscaröl, del braconiér, del carpentér, del ferér, del fongaröl, del malgár, del marangón, del murár. Penso che non fosse escluso nemmeno l'embriaghéla-poeta, che assumeva la funzione del custode delle historie e delle filastrocche, che narrava nel tepido umido stercorario ambiente del filò nelle bovine stalle delle baite.
Quassú ho trovato quindi le antiche tracce del lavoro di una gente, che dalla montagna ha tratto cibo e sostentamento e che ab immemorabili, non si sá da quando, ne ha praticato l'accessibilità, nell'intricata selvatichezza con l'operosità del proprio lavoro.
Infatti senza l'accesso e la penetrazione non era possibile il taglio e l'abbassamento della rendita del bosco; non la costruzione delle baite; non l'accompagnamento delle bestie sugli alti pascoli; non la coltivazione e la raccolta del foraggio da far scendere a valle per il mantenimento degli animali domestici nei lunghi inverni. Pertanto la rete dei comodi sentieri, capillare sottomissione alla impenetrabilità, e le innumerevoli testimonianze sparse nei posti più impensati dell'architettura rurale, sono stati per me il racconto visivo della vicenda ultracentenaria di una gente che ha valorizzato un territorio, proprio là, dove le risorse non si offrono allo sfruttamento con facile prodigalità.
Baita, Ca'del Tróna, Crédua, Dégri, Dénzua, Doss, Flangína, Funtanéla, Frati, Gagé, l'Val, Livéra, Margón, Mazáni dé Méz, Madér, Mezúl, Négra, Paladíc, Palazín, Paolét, Picé, Plàn, Prantíc, Prísi, Santa Luzia, Stablél, Stropéli, Vallastón sono alcune delle testimonianze dei fazzoletti di coltívo a prato ed a pascolo, strappati prima al bosco e poi dissodati a forza di braccia. Essi stanno a dimostrare che qui la natura ha imposto al contadino l'assiduità della fatica necessaria a rendere fertili le terre incolte, dove per secoli è stato costantemente necessario lo sforzo della sua intelligenza nell'interpretare la rendita nascosta e nel dominare l'ostilità delle stagioni.
Da questa sua tenacia si è sviluppata una specifica cultura materiale, capace di ricavare il necessario alla vita dal dominio del selvatico, di sfruttarne le risorse senza esaurirle e di usare la natura senza snaturarla (fatti salvi i casi evidenti di alcuni manufatti aberranti per materiali e stile, conseguenza di una invadenza residenziale recente).
Il buon stato di conservazione di tante baite storiche, taluni interventi di risanamento conservativo operati su altre, la ricostruzione dalle fondamenta di tal'altre nel rispetto dell'utilizzo della pietra e del legno, secondo la tipologia tramandata, costituiscono nel paesaggio le forme architettoniche e il valore di autentici reperti di un'archelogía sociale, per me ricca di spunti conoscitivi di grande suggestione.
Il primo: il contadino-allevatore-boscaiolo edificò in diretto rapporto alle sue necessità residenziali estive per uno sfruttamento economico di sopravvivenza.
Il secondo: il suo intervento significò una fusione delle componenti con l'ambiente: strada, sentiero, baita, orto, prato, pascolo, bosco ceduo, selva arbòrea.
Dalla compenetrazione degli uni con gli altri è sorto quello che io chiamo il microcosmo culturale della condizione del vivere antico in montagna. Esso limitava le sue relazioni a comportamenti impostati alla buona armonia con i vicini; scambiava con loro occasioni molteplici di solidarietà utili alla vivibilitá, perché tutti si trovavano in condizioni vitali estreme e per questo gestivano in comunione: la custodia dei bambini, degli anziani e delle bestie; i rifornimenti di acqua, vettovaglie e legna da ardere; il trasporto a valle dei prodotti agricoli a spalla, a dorso di mulo o con carretto. Non per niente le baite sono sparse sul territorio a grappolo, le une vicine ad altre, quasi per tenersi calde e protette dall'aroma del fumo. Lassù i bambini diventavano adulti in fretta e si responsabilizzavano per emulazione; apprendevano dai racconti minacciosi dei vecchi e dai loro sguardi improvvisamente spaventati, che cosa poteva provocare un lume acceso in tempo di föhn: un rogo catastrofico delle baite e del bosco.
Ciò avvenne per secoli e fino ad alcuni decenni. Ma a partire dal 1950 circa, la rottura dell'isolamento e del sistema autarchico della popolazione messo in crisi dal mercato esterno più conveniente, l'avvento intenso della meccanizzazione, il moltiplicarsi dei benefici economici derivati dall'industria turistica, la graduale sostituzione dei redditi agricoli con quelli artigianali ed alberghieri, provocarono il tracollo dell'agricoltura di montagna: da allora la Flanginéch ha perduto l'anima atavica agricola.
Al suo abbandono di una parte dei censiti, si evidenzia un preoccupante interesse da parte dei turisti che vengono da fuori, che si sostitiscono all'incuria dei residenti (alcune baite sembrano piangere da sole per il degrado in cui giacciono). Inoltre il potere d'acquisto dei probabili acquirenti, crea per il millenario patrimonio inestimabile della Flanginéch una situazione a rischio per la dissoluzione dell'unità.
Mi conceda inoltre il lettore, di rilevare che il microcosmo delle terre alte della Flanginéch è stato pensato, disegnato e costruito dai soli censiti di Giustíno, che sicuramente parlavano solo la lingua etnica familiare e che a mala pena conoscevano la lingua nazionale, ma che dimostravano di conoscere la squadratura del sasso e del muro a secco; gli appoggi angolari in pietra per impedire il contatto diretto tra il legno e l'umidità della terra; che sperimentavano la sovrapposizione delle travi scolpite a mano ed incastrate negli angoli con intaccature a mezzo legno, che fungono da cerniera; che via via perfezionavano l'ingabbiatura portante del fienile con fitti intrecci fra puntoni e ritti, fra croci, diagonali e saette; la struttura bifálda del tetto con il colmo rivolto a valle; la copertura con scandole fatte a mano e disposte in terza; la doppia crociera a sostegno del ritto; la confezione degli infissi con l'incastro a coda di rondine; la erezione mezzo pietra, mezzo legno del casetto del latte (báit dal lát), discosto di quel tanto da essere arieggiato; infine l'utilizzo di una carpenteria con intelaiature sempre più evolute nel tempo.
Il percorso storico dell'umile e pratica struttura della baita "múris murátam et lignamínibus edificátam et scándolis copértam"3), costruita in muratura ed in legname e coperta di scandole, lega lungo secoli la storia locale ai grandi movimenti europei suddivisi in due fasi: dal risveglio culturale ed economico dei secoli Medioevali che va dal 1100 al 1350, all'esplodere del libero rifiorire delle arti, dei costumi, della politica municipale e dell'economia del Rinascimento che va dal 1400 al 1600.
In mezzo alle due epoche e dopo, stanno le epidemie delle pesti, che decimarono anche in Rendéna la popolazione e contrassero lo sviluppo economico. Solo successivamente la baita trova in Rendéna l'apice del suo sviluppo: ossia dal 1700/800 fino ai primi decenni del 1900. Fu allora che si verificò la maggiore penetrazione nella boscaglia ed il più intensivo sfruttamento. La presenza della baita cominciò a costituire la giustificazione del suo esistere al servizio della famiglia e degli animali domestici. E tutto confluiva nell'unicum economico.
Sul Paiún4)
A la dumán, a li zínch, 'l bacán al náva n'la stala a guarnár. Al purtáva 'l fin cun la báza e 'l lu mitíva díntru la parzíf. Intánt ca li vachi li magnáva 'l fin, öl cun la carriöla al tulíva fò 'l ladám dal fòss, ca l' èra sémpru plín e 'l lu purtáva sa la púza. Dop al ghi fava 'l lét cun la föia süta. Vigníva cí l'ora da múngiar a man, santá giú sul sgabél cun la söcia intrá li gambi. Prüma da purtár al lat al casél al disligáva li cadíni e 'l purtáva li vachi a brívar. Li vachi li cugnüssíva 'l sintér e dopo avér bivú, li turnáva al so sít, e li si lagáva ligár. Al stess mistér al lu rifáva a la séra. D'istá li vachi li vigníva minádi sui múnç, in malga e lí, l'èra `l vachèr chi ghi stáva dré. Li vachi li si guarnáva da par öli cun l'erba dal grás. Intánt, giú 'n la val 'l bacán al sagáva i pré par paraciár 'l fín par l'invérn. In auftún prüma dal fröt al li mináva al páscul, prüma sal munt e dop giú 'n tai pré. La prüma néf la smurzava tücc i culór da l'aftún. Ormai li vachi li èra in la stala e lí, li si scafdava l'una cun l'alftra. Chí dòp cína, tüta la famöia, al lüm di `na lantérna, la fava `l filò. I véç i cuntava li fòli; li dòni li uciáva e i gnaréi i scuftáva `incantè. Quánca la lantérna la dava sögn da smurzarsi, tüç quanç i òmagn, li fúmbli cui sciái, i gnaréi cui gabanéi e la baröta sal co, i nava a li só báiti a durmèr sul paiún.4)
Questa funzione, le terre alte della Flanginéch ora non l'hanno più. I bacán, i contadini, sono diventati operai, impiegati, terziari, albergatori, imprenditori agricoli meccanizzati di fondo valle e coi loro figli vivono tutti in spazi altamente urbanizzati.
Dell'unità della Flanginéch, delle sue baite, della sua cultura ultracentenaria, mi domando, che ne sarà in futuro?
Non mi dispongo nell'attesa di un qualsiasi rimbalzo di risposta, ma mi si conceda di fare un auspicio disinteressato: che i cultori del plesso attorno alla Flanginéch, sia quelli di vecchio possesso, sia quelli di nuovo ingresso, riconoscano come, per contribuire alla sua salvaguardia, la repressione degli atti distruttivi e l'indicazione della sacralità intoccabile del territorio, risultino mezzi meno efficaci rispetto all'azione di informazione e di persuasione rispettosa in ordine alle emergenti tendenze umane, potenziali e stimolabili. Azione che risulterebbe più persuasiva se dotata della seduzione dello studio di interventi calibrati e del garbo nel modo espressivo.
Per quanto attiene all'intervento calibrato mi permetto di far osservare che la politica di corretta gestione del plesso non può prescindere da tre elementi fondamentali.
Primo: il recupero dell'orgoglio culturale da parte di tutti i possidenti.
Secondo: il pristino del presidio umano, che non può più essere quello storico dei secoli passati, ma nemmeno quello fallimentare della speculazione edilizia (la megalopoli di Campiglio insegni), che ha espropriato i montanari di molti loro valori, giungendo sino ad una subalternità culturale nei confronti delle mode metropolitane imposte dagli speculatori.
Terzo: il mantenimento con un corretto utilizzo della risorsa ambientale e paesaggistica, come punto di partenza per l'invenzione della rendita futura. Ciò è possibile solo impostando il concetto di cultura territorializzata, ossia la ricerca continua del difficile equilibrio tra conservazione ed innovazione.
Mi spiego meglio: occorre rigettare il concetto aberrante e riduttivo dei vincoli, delle aree protette, delle aree faunistiche, delle riserve, degli orti botanici. Già l'area destinata a parco è ridotta ad un grande fazzoletto di terra. Occorre invece promuovere un programma di pianificazione totale che tuteli le singole componenti nell'ambito territoriale, che valorizzi la lingua etnica, le culture locali, che potenzi l'identità collettiva ed il legame con la terra da parte di chi la abita e di chi, anche foresto e straniero come me, la sa rispettare. (Continua)
Note
1) L'autore fu l'unico alpinista CAI-SAT che nel 1970 si oppose con una requisitoria, pubblicata nella pubblicistica di montagna, al famigerato "Piano Manshold", che uccideva l'agricoltura di montagna e praticamente lasciava lo spazio alla speculazione edilizia privata per la creazione dei centri urbani in quota su modelli metropolitani.
2) buciáti, Grazia Binelli, poesie in gergo etnico di Rendéna, Editrice Rendena, 02/1996.
3) Reperito in Carte di Regola del 3 febbraio 1519.
4) Testo scritto in gergo etnico di Tiarno Ledro, poi tradotto in gergo etnico di Rendéna da Brunetto Binelli dei Lucín con l'aiuto di Italo Maffei dei Lustri.
Adamello e Paneveggio, due parchi da rilanciare
di Luisa Pedretti Romeri *
Le due magnifiche aree protette trentine, mortificate da una gestione affidata dalla Provincia ai Comuni interessati, non trovano lo slancio necessario a una reale tutela dei loro ambienti.
Le inadempienze rispetto alla legge nazionale e le critiche di Italia Nostra.
Premessa
Negli ultimi mesi del 1996, mentre sta per andare alle stampe "Rendena nove", la situazione del parco "Adamello-Brenta", a otto anni dalla sua istituzione, non si è granché modificata rispetto a quanto avevo espresso nell'articolo comparso sulla rivista nazionale "ITALIA NOSTRA", circa un anno fa, di cui segue il testo.
Una scarsa informazione negli anni precedenti, la malafede e l'imprevidenza di "nuova" amministratori che si sentono scavalcati da decisioni o da ipotesi progettuali di gestione del parco decise precedentemente al loro incarico, oltre all'atteggiamento minaccioso e ricattatorio di gruppi di persone non ben qualificate tutto ciò ha contribuito a minare ulteriormente un equilibrio di gestione dell'Ente parco già fragile e poco capace di confronto dialettico.
Va aggiunto che la società locale non è ancora culturalmente preparata ed in grado di accettare senza riserve la legge istitutiva del parco, voluta e gestita dagli amministratori ben otto anni fa.
Eppure questa stessa normativa schiude le porte a nuova occupazione, sia nelle strutture di gestione delle aree protette, sia nell'indotto del turismo naturalistico educativo e scientifico. Ma non si vuole vedere più in là del proprio naso e molti denigratori del parco, nei mesi estivi appena trascorsi, hanno fomentato malumori e diffuso notizie tendenziose e di parte, in nome di una volontà popolare di autogestione del proprio territorio.
Mi auguro che quanto prima il Piano del parco venga approvato, così che l'Ente possa finalmente decollare in modo autonomo e convincente e riesca soprattutto a coinvolgere la comunità locale nella realizzazione di un nuovo turismo di qualità.
Iter della legge istitutiva
La legge istitutiva dei due parchi della Provincia di Trento si identificò inizialmente nel Piano Urbanistico Provinciale (PUP) del 1967, che individuava e perimetrava contemporaneamente i due parchi dell'Adamello-Brenta e di Paneveggio-Pale di San Martino, in considerazione delle particolari caratteristiche naturali, riservando a parco rispettivamente un'area di 504 kmq di superficie per il primo e di 157 kmq per il secondo.
La scelta dei parchi rappresentò una lungimirante intuizione del primo piano urbanistico approvato in Italia. Tale scelta non fu però capita dalle popolazioni locali che la vissero con ostilità, soprattutto per il blocco all'attività edilizia e per i severi criteri ai quali doveva uniformarsi anche la pianificazione comprensoriale.
Alla delimitazione delle aree destinate a parco dal PUP non seguì una normativa specifica inerente la gestione, il mantenimento e lo sviluppo di tali zone di protezione. I tentativi di promozione del parco non suscitarono nè l'attenzione nè il coinvolgimento su scala locale e di vallata, dove la popolazione era poco disposta ad accettare interferenze esterne sulla fruizione delle risorse comunitarie riservate". Malgrado le sollecitazioni di ambienti scientifici e di associazioni culturali e ambientaliste, passarono venti anni prima che fossero superati gli ostacoli legati ad una crescita tumultuosa del turismo ed al rifiuto di regole che non fossero di ordine economico.
In una fase successiva, nel 1987, si giunse alla revisione del PUP. Essa portò un ulteriore ampliamento della superficie territoriale destinata a parco che raggiunse gli attuali 618,64 kmq per il parco dell'Adamello-Brenta e i 190,97 kmq per il parco di Paneveggio-Pale di San Martino.
Le norme di attuazione del PUP (art. 11) definirono le nuove regole urbanistiche per le aree a parco che vennero distinte in riserve integrali, guidate e controllate Vennero inoltre create un po' ovunque aree di biotopi di interesse provinciale, ma l'attuale amministrazione di Trento sta vanificando questo sforzo ulteriore di salvaguardia. Delega infatti i Comuni alla gestione di queste oasi naturaliste, impedendo di fatto una loro salvaguardia unitaria, e permette inoltre l'attività venatoria nelle zone in questione, in contrasto con la legge nazionale sui parchi.
A seguito dei nuovi vincoli legislativi, si ebbe la mobilitazione della popolazione locale che in modo forte ed autonomo impose alla Provincia un progetto di gestione delle aree protette in cui i rappresentanti dei Comuni costituivano la componente più rilevante.
La Provincia con la legge 18/88 ratificò il tanto atteso "Ordinamento dei parchi naturali" tuttora in vigore. Esso riconosce alle comunità locali il diritto a condurre in prima persona il processo di organizzazione e gestione della risorsa parco, secondo il principio che lo sviluppo dei parchi e lo sviluppo delle comunità devono procedere di paripasso.
Il coinvolgimento della popolazione alla gestione dei parchi è garantito ampiamente dagli organismi dei due parchi: dal comitato di gestione alla giunta esecutiva al collegio dei revisori dei conti, come si legge nelle rispettive schede tecniche.
Parco Naturale Provinciale - Adamello-Brenta
L'attuale situazione gestionale del parco dell'Adamello-Brenta dopo più di sette anni dalla sua istituzione, preoccupa non poco le associazioni protezionistiche e chi ha capito che il parco è una risorsa rara, da conservare come fattore di ricchezza progressiva, in grado di qualificare e valorizzare tutti gli insediamenti e le attività del fondovalle e di suscitare effetti positivi sull'intero territorio provinciale.
I più guardano al parco naturale come a qualcosa da sfruttare economicamente e troppi fra gli amministratori sono fortemente tentati di imboccare la solita strada, prendendo la ripida china senza ritorno dello sviluppo immobiliare. Infatti, chi per le responsabilità di cui è investito dovrebbe aprirsi agli apporti culturali ed alle informazioni provenienti dall'esterno agita invece l'ingannevole vessillo delle virtù valligiane per coprire la voglia di facile consenso (conquistata aderendo a miserevoli speculazioni) e l'incapacità di distinguere soluzioni di respiro e di alta qualità progettuale da qualche episodio di folclore locale.
Gli interventi attuati in questi anni, che costituiscono il vanto degli amministratori dell'ente, consistono indiscutibili asfaltature di strade nel parco (tra cui in Val Genova), nel ripristino e manutenzione dei sentieri esistenti, nell'acquisto di immobili da destinare a centri, nella rimozione dei rifiuti dalle strade di accesso al parco e dai rifugi, ed altre attività che potrebbero o dovrebbero essere gestite dai Comuni interessati.
A onor del vero è stato promosso anche un convegno sul rapporto parchi e amministrazioni locali, è stata curata la pubblicazione di alcune ricerche relative ai ghiacciai, alla vita dell'orso, e di altre specie faunistiche e da un paio d'anni è pubblicato anche un foglio notizie sull'attività del parco, ma manca una seria promozione culturale verso la popolazione locale e verso il mondo esterno.
Gli amministratori del parco si sono dimostrati poco capaci di gestire l'ente, anzi hanno contribuito a delegittimarlo. La mancata adozione del piano non permette il regolare e naturale sviluppo delle iniziative tipiche dell'ente e lo strumento che dovrebbe riempirne il vuoto, cioè il programma annuale di gestione, risulta troppo carente e attendista rispetto alle risorse messe a disposizione dalla Provincia. Ne consegue un avanzo di gestione consuntivo sempre molto elevato.
Certo, se da un lato la giunta esecutiva del parco si è rivelata inadeguata, dall'altro la giunta provinciale (l'attuale, come quelle che l'hanno preceduta) ha coperto con uno spesso velo di silenzio ogni carenza della giunta del parco, e non è intervenuta come avrebbe dovuto fare da tempo immemorabile per correggere una situazione di stallo che si stava incancrenendo.
* Rappresentante di Italia Nostra nel comitato di gestione del parco dell'Adamello-Brenta.
Personaggi
Claudio Betta, cavalesano di 69 anni, presidente dell'Associazione provinciale dei cacciatori. A fine d'anno scade il suo mandato quadriennale: "Non penso di ricandidarmi, alla mia età è meglio andare a spasso e dare spazio ai giovani". Un gentiluomo che ha fatto il sindaco di Cavalese con un'alluvione sulle spalle, l'assessore provinciale in anni di trasparenza amministrativa, il Presidente della Cassa Rurale di Cavalese e a richiesta popolare il presidente dei Cacciatori trentini. Conosciuto ed apprezzato nel Trentino, anche all'ovest gode di stima e fiducia. Il periodico Rendéna si onora di ospitare uno dei tanti suoi racconti e lo ringrazia con un Weidmans heil!
Vecchia Baita
di Claudio Betta
...A rammentare quei tempi felici sei rimasta tu, Vecchia Baita, fumosa, umidiccia, grigia, che tra gli infissi serbi ancora per me l'eco di voci care...
Un ultimo sorso di caldo thè ristoratore e la cena è finita. Esco sul piccolo terrazzo in legno, coperto dalla corta tettoia, e siedo sulla panchetta, appoggiando la schiena al muro ed allungando i piedi sulla ringhiera intrecciata da rozzi paletti. Se non fosse per lo scrosciare del ruscello che dalla vetta schiuma a valle, il silenzio solenne della montagna sarebbe completo. Il bosco incupito mi sovrasta e nella tenebra della sera la luce trascolora in un'irreale tinta azzurrina. Anche il capriolo che pende attaccato al paletto della tettoia, fa parte della natura e la macchia di sangue coagulato sul pavimento non stona, nell'ultima pennellata del tramonto che scolora. Questi sono gli attimi nel quali contemplo sognante la natura nei ricordi, nei rimpianti, nella pace. Quante sere ho trascorso su questo sgabello, stanco dopo una giornata di caccia! Alla baita venivo anni or sono, in compagnia di mio padre e degli zii, vecchi cacciatori romantici, dai quali ho appreso, in sere come questa, i primi insegnamenti severi per cacciare, per godere il bello della vita serena in montagna, per dare amore, e non è incongruenza, alla vita degli animali.
Si restava, a quei tempi, lunghi giorni, con la compagnia di bracchi e segugi. I pensieri del lavoro erano lontani e si cacciava il capriolo nella foresta d'abeti, ed i galli più su tra cirmi e rododendri. Ero ancora ragazzo quando venivo le prime volte quassù e pieno di gioia ed eccitazione portavo l'acqua per la polenta, lavavo le padelle ed i paioli anneriti; ramazzavo, raccoglievo ramaglie, correvo, saltavo, mi adiravo quando i vecchi nei grevi pomeriggi di settembre si appisolavano per qualche ora perché, secondo me, non c'era tempo per dormire, ma bisognava muoversi, correre, cacciare, cacciare, cacciare (chi dorme non caccia). E più tardi, giovane studente alle prime uscite, mentre papà e gli zii schiacciano il solito pisolino pomeridiano, prendevo il fucile ed andavo nel bosco da solo e cominciavo a correre tra i mughi odorosi, e correvo con tutte le mie forze, incontro ai rami che mi sferzavano il viso a sangue, incespicando e cadendo, rialzandomi con forza, e quasi non capivo se ero cacciatore o selvatico in fuga, fino a che sfinito e col fiato grosso, spossato, cadevo a terra e mi rotolavo nell'erba con frenetico piacere di sentirmi tutt'uno col bosco, colla terra, colla montagna.
La sera, accanto al fuoco, udivo interminabili chiacchierate degli zii, che a quell'ora diventavano filosofi e raccontavano lunghe storie di caccia vissute da loro o sentite raccontare dai loro vecchi, mentre di tanto in tanto un grosso ceppo veniva messo a ravvivare il fuoco. Ed io nel cantuccio ricavato dalla panca a muro, con gli occhi stanchi e lacrimosi dal fumo, lentamente mi addormentavo e sognavo di gallinelle che volavano alte nel cielo contro il sole, e di vecchi becchi imponenti che a testa bassa attaccavano con le corna i segugi latranti.
Ricordo che al mattino, coi brividi addosso, facevo la sveglia alle prime luci dell'alba. Scaldavo il caffè e scioglievo i cani impazienti, che continuamente mi trapassavano le gambe uggiolando. E poi via! Impaziente! Tra i boschi gelidi per la notte, mentre i primi raggi del sole accarezzano le cime lassù in alto nel cielo.
Col passare degli anni le ore trascorse in baita si fecero sempre più rare. L'età degli zii e poi gli impegni di lavoro, che mi legavano ad un ritmo vitale sempre più caotico: impegni, lavoro, politica; ambizioni, carriera, lavoro; nervi a pezzi, stress, caos.
Solamente per qualche giorno ormai potevo rivivere nella baita tranquille giornate settembrine, assaporare vivificanti arie gelide del mattino, sfaticarmi in lunghe marce tra i mughi, godere di canizze entusiasmanti che scuotevano le valli; ammirare stupende ferme sui forcelli; udire secche fucilate che stroncavano il volo rabbioso di un gallo e tonificarmi con gli odori del bosco e del muschio muffito della baita.
E la sera fuori sul terrazzino seduto a rimirare le stelle nella volta del firmamento, mentre dentro udivo le voci dei vecchi accanto al fuoco raccontare di quel capriolo che si beffava di tutti...
Quanta pace mi dava questa baita fumosa nel bosco! Ora la guardo nell'ultima luce della sera: dalla porta aperta si scorge il bagliore del fuoco che disegna ombre che si rincorrono sulle pareti di legno. Ne esce il profumo del fieno del giaciglio misto all'odore umidiccio del pavimento in nera terra battuta. E quanta tranquillità e sicurezza essa mi dava nelle notti di tempesta quando il vento e la grandine si scagliavano veementi contro il tetto, ed il cane accucciato ai miei piedi rabbrividiva e si faceva posto tra le mie braccia sotto la coperta di lana.
Da solo sono ritornato negli ultimi anni alla baita: gli zii sono morti e l'età impedisce a mio padre di andare a caccia.
Solo, sono rimasto. Ora ho il sovrapposto a palla con cannocchiale fiammante, scarpe con stivaletto alla canadese, giubbotto col pelo, uno stupendo cane dalle linee scattanti, vini pregiati, cibi in scatola, tutto è a posto, ma quanto sono solo! Il tempo, degli zii filosofi cacciatori romantici dalle scarpe chiodate, il tempo del vecchio bracco insellato e vaccino che mi rubava la polenta di mano, è passato!
Unica a rammentarmi quei tempi felici sei ora tu, vecchia baita del mio cuore, fumosa, umidiccia, grigia, che tra le tue pareti serbi ancora per me il suono di voci care, il ricordo di ore felici che altrimenti sarebbero dimenticate.
Un altr'anno porterò mio figlio, piccolo cuccioletto biondo con gli occhi arditi da cacciatore1). A quest'ora starà forse sognando del suo papà in attesa del mio ritorno con il capriolo che gli ho promesso. E già lo vedo, un altr'anno, correre felice nel bosco con l'entusiasmo del cacciatore romantico, mentre io schiaccerò il pisolino pomeridiano.
Nota
1) La caccia si configura sempre di più come un'attività ristretta ad un numero sempre minore di individui che riconoscono l'ambiente come risorsa e patrimonio collettivi. In calo costante sono le doppiette che sparano. É questa una delle considerazioni contenute in un lungo studio elaborato dall'Eurispes sulla caccia ed in particolare sulle "radici del conflitto" che interessa, ormai da oltre dieci anni, il nostro Paese e che contrappone le associazioni venatorie ed ambientaliste, ma che nello stesso tempo ha prodotto anche una "legge quadro" che ha imposto una nuova e sempre più ampia collaborazione tra i soggetti coinvolti nel processo di programmazione e di gestione ambientalista del territorio, emarginando le frange estremiste delle due fazioni. Il processo di selezione non solo quantitativa, ma anche qualitativa del numero dei cacciatori ha visto ridurre la presenza negli ultimi cinque anni di circa il 40%, passando da 1.447.000 unità del 1990 ai circa 850.000 attualmente stimati. Anche a livello Europeo i cacciatori sono diminuiti passando dagli oltre 6 milioni del 1990 a poco di 5 milioni del 1993.
Camminare con Nepomucéno
di Giuseppe Leonardi
Camminare vuol dire allontanarsi, distaccarsi, immergersi, uscire dal mondo artificiale per immedesimarsi nel mondo fantastico delle fiabe e delle leggende, a contatto con la natura e le testimonianze della cultura. Questo è stato il "leit Motiv" sul quale lo storico Tranquillo Giustina ha ricamato il suo impegnato, meticoloso e sofferto intervento pronunciato dinnanzi ad un pubblico da "pienone" in occasione della presentazione, partecipata, qualificata e signorile del volume "Fiabe e leggende della Rendéna", avvenuta nel pomeriggio di una tiepida (finalmente) domenica, quella del 26 maggio 1996 al Parco Estense di Vigo Rendéna. A finanziarla è stato quel manager della cultura locale (proveniente dall'est del Trentino) Piergiorgio Motter, titolare dell'Editrice Rendéna. Quella di Giustina è stata una dotta lezione di analisi ed introspezione psicologica di Nepomucéno Bolognini, al seguito della brigata comandata da Giuseppe Garibaldi, combattente per il progetto politico della Corona Sabauda del Regno d'Italia di unificazione del Tirolo italiano all'Italia, e poi rinnegato come "italiano" nella sua terra e nel Regno d'Italia come "austriaco".
Di lui Giustina ha detto essere: "l'unico grande cantore del folklore trentino, l'unico eccelso scrittore della letteratura di Rendéna". Ma per il Bolognini vale anche l'amara conclusione del detto popolare: "La vittoria ha cento padri, la sconfitta (quella politica di Bezzecca) è orfana".
Mi acconsenta ora il lettore di abbassarmi dalla parete dai passaggi di VI Grado letterario di Giustina e di sedermi molto più in basso, su di una comoda cengia, da dove posso con meno impegno integrare la vicenda umana dell'avvocato di Rendéna.
Raccontano le storie che al fondo del pian di Bédole, dove inizia la salita che porta alla testata della val Genua, su di un promontorio di massi di tonalíte, per merito dei primi soci della Società degli Alpinisti Tridentini, acrónimo SAT, a soli due anni dalla costituzione, sorse nel 1874 la casína Bédole, edificata con tronchi di legno tagliati e segati in loco. Era il primo rifugio della società.
Da dieci anni erano state salite le cime dell'Adamello e della Presanella, e da nove la cima del Caré, e la val Genua era alpinisticamente celebre in Europa per merito dei pionieri esploratori e primi scrittori di montagna: il tenente e cartografo absburgico, Julius von Payer, e gli inglesi John Ball e Douglas William Freshfield.
Genua, appartata e misteriosa, pregna di impervia selvatichezza, era accessibile a piedi solo d'estate ai valligiani boscaioli e mandriani, che vi portavano a pascolare gli armenti e dove cacciavano a volontà camosci, linci, orsi ed animali liberi di tante altre specie. Vi arrivavano dopo il lungo verno nevoso, quando le acque selvagge e irrefrenate, precipitavano abbondanti dalle soprastanti vedrette e libere formavano cascate, gorghi, stramazzi e tonfi, che s'infrangevano rabide e scure contro i massi antichi di ruína. La mulattiera iniziava alla Bocca di Genua, dove a guardia del passaggio vigilavano gli arcigni boscaioli della segheria dei Strólegh, che sfruttavano l'acqua deviata della Sarca, ricavata con una canaletta scavata e costruita fra i massi. La mulattiera proseguiva tra enormi massi granitici e varcava su di un ponte di tronchi il torrente affluente Nardìs, che, precipitando con due rami spumeggianti da un impervia parete granitica, forma la cascata del Piç da Nardís.
Poi prendeva a montare sensibilmente tra erte rupi lungo la Scala dei Bò, dove s'addentrano le selvaggie vallette di Siniciága e Germénega, in un ramo della quale giacciono i pittoreschi laghi di San Giuliano e Garzoné. Superata un'altra strozzatura, anche più pronunciata, la carrareccia entrava nel pian dell'osteria di Fontana Bóna, di alcuni casolari e di una segheria, dove zampillava una fresca fonte e dove le Guide invitavano di solito alla prima sosta.
Di qui proseguiva ombreggiata, come in mezzo ad un parco, verso il pian di Genua dove si ha lo spettacolo dell'imponente cascata di Láras. Continuando per breve tratto, scendeva a lambire il torrente. Quindi proseguiva in salita contorta (sempre in sponda destra), lungo la Pontára e raggiungeva la verdeggiante conca della Ragáda, dove si può ammirare la rapida del Tóf del Mal Neó. Superati i casolari de la Todèsca (così chiamati perché una donna di origine bavarese vi distillava l'enziana) e salita una rapida strozzatura, penetrava nel bacino della malga e della casína di Carèt. Proseguendo superava un gradone fra massi oscuri, lungo la salita del Pedrúc, con a fianco la fragorosa cascata. Attraversava poi il boschetto del Ciresé e sboccava nello smeraldino Pian del Cúch, dove la testata della valle è chiusa dalle seraccate delle Lòbbie e del Mandrón in uno dei più grandiosi e severi circhi rocciosi delle Alpi. Qui, appena iniziata la salita, sorgeva discreta ed appartata in modo da non mangiare prato verde utile agli armenti, la casína di Bédole della SAT. A tredici anni dalla costruzione, i soci fondatori decidevano di ristrutturarla, perché nella primavera, una valanga precipitata dalla Ronchína, l'aveva gravemente danneggiata. Per 50 fiorini acquistarono dal Comune di Mortáso l'appezzamento di terreno su cui sorgeva, e fecero iniziare, nell'estate del 1885, i lavori di una rinnovata e leggiadra costruzione, che chiamarono con un nuovo nome: capanna Bologníni. Racconta ancora la storia:
- è in legno; ha il tipo di un chalet svizzero e contiene oltre la sala da pranzo parecchie camere da letto -.
Ma chi era il Bolognini? Mi sovviene lo storico Tranquillo Giustina, che scrive:
- ...Con pochi ma fidati amici giudicariesi, tra i quali Prospero Marchetti di Bolbéno e Giambattista Righi di Rendéna, egli prima caldeggiò, quindi entusiasticamente programmò e promosse, l'istituzione d'una società di persone forti e generose, la Società degli Alpinisti del Trentino, capaci non solo di amare la propria terra, ma anche di difenderne coraggiosamente la specifica identità e l'italianità inconfutabile -.
Il rinnovato rifugio veniva inaugurato nel 1888, alla presenza del Bologníni, socio fondatore e primo relatore della bozza di statuto della Società. L'allora consiglio direttivo della SAT, omaggio migliore non poteva fare al propugnatore tenace dei valori della sua terra. Abbandonato il campo di battaglia e rientrato profugo a Milano, egli si rese conto che non la violenza delle armi precarie, ma l'amore operoso per la terra natale - cito il Giustina - non l'esasperazione delle logiche storiche o sociali, ma la paziente persuasione della parola, non il vanto delle vittorie e dei trionfi (questa è una stupefacente rilettura che Giustina fa del personaggio Bologníni), ma la rivalutazione d'una cultura popolare ricca di quelle verità che fanno l'uomo libero, e che potevano determinare la rifioritura dell'intima ed insita nobiltà d'una stirpe -.
E allora che cosa fa il Bolognini? Con estro ed euforia giovanili pubblica in uno dei suoi annuari le fiabe e le leggende della Rendéna, e ad una misteriosa destinataria scrive:
- Mantengo l'ostinazione del montanaro ed a furia di presentarle questi monti e i suoi abitatori, sotto tutti gli aspetti, mi sono fitto in capo d'invogliarla alla fine a venire fra essi e restarvi, portandovi il suo sorriso vivificatore ed appagando così il lungo e sospirato nostro desío -.
Questi sentimenti esprimeva il Bologníni il 10 agosto 1888, l'anno stesso in cui i soci fondatori della SAT, riconoscenti, gli intitolavano la capanna di Bédole, suggellando tra di loro un patto operativo fra braccia e mente, fra manager e operatore culturale, additandosi inconsciamente a rappresentare ante litteram come capofila dei promotori turistici della val Rendéna. Infatti tra il 1875 e il 1889 aveva raccolto dalle labbra dei suoi valligiani fiabe e leggende, restituendole a loro in bella lingua letteraria.
Dodici anni dopo, il 19 luglio 1900, all'età di 76 anni, si spegneva nell'esilio di Milano la vita del nativo di Pinzolo, anima purissima, carattere adamantino, disinteressato e modesto, come lo ebbe a definire il presidente della SAT Carlo Candelpergher nel tesserne l'elogio durante l'annuale congresso sociale di Vigo di Fassa. Infatti ad oriente, nella reggia di Re Laurino, era ancora vivo in tutti i soci il ricordo di quando, qualche anno prima, era il 1892, il Bologníni era salito al valico del Grosté, per l'inaugurazione del rifugio intitolato allo scienziato Antonio Stoppáni ed indossava un vistoso panciotto rosso fiammante, ricavato da una sua vecchia camicia di colonnello garibaldino.
Sedici anni dopo la morte e terzo della Grande Guerra, nella parziale conquista delle vedrette ghiacciate dell'Adamello, reparti in armi del 4° raggruppamento della V divisione delle Truppe Alpine del Regio esercito Sabaudo, avevano espugnata nel giugno 1916 anche la Conca di Bédole, strappandola ai difensori Austriaci. Le truppe del colonnello Carlo Giordana furono molto fortunate nell'occupare l'allora rispettata (dalle truppe austriache) capanna Bologníni, perché, sfondata la porta fortemente sprangata e divelte le finestre bene aggraticciate, nei suoi solai trovarono riposte, insieme ad altri oggetti quali un'arpa, abbondanti scorte di verdura essicata, che allora vennero buone per fare alla truppa le zuppe del rancio. Inoltre accanto alla capanna occuparono anche altre sette baracche, che il presidio austriaco aveva costruito per la truppa e per il deposito dei rifornimenti, che con una teleferica (di cui restano tutt'oggi i cippi) giungevano alla Leipziger Hütte ed agli avamposti della Conca del Mandrón. Per il comandante della 242a compagnia del battaglione val Báltea, tenente Fabrizio Battànta, grave divenne il problema dei rifornimenti, che dovevano giungere dal lontano rifugio Garibaldi posto sul versante della Valcamónica attraverso il passo Brizio, o dal passo di Lagoscúro. In una cartolina in franchigia spedita dalle nuove posizioni in data 21 giugno 1916 scriveva:
"Caro padre, mi trovo nella nuova posizione. Siamo al limitare delle piante. Qui si fa la guerra da brigantaggio. Ognuno distaccato fa da sé. Saluti aff.mo tuo figlio Fabrizio".
Durante i mesi estivi, il Battànta organizzò un servizio di vettovagliamento con l'utilizzo di corvée di asinelli, che scendevano e risalivano i 23 tornanti del sentiero che collega Bédole col Mandrón.
Ma con il sopraggiungere delle prime nevicate autunnali, l'ufficiale di presidio fu costretto dal giorno 8 di novembre a sospendere il servizio dei rifornimenti. Agli Alpini rimaneva un' unica soluzione: la caccia ai camosci nella quale si distinguevano i valdostani. Ma quando i cacciatori tornavano a mani vuote, i cucinieri erano costretti a procurarsi la carne per il rancio con gli asinelli delle corvée, che finivano, uno alla volta, nelle gavette della truppa affamata. Per i difensori della Conca di Bédole la situazione si fece più critica quando cominciarono a cadere le grandi nevicate e dal rifugio Garibaldi non arrivarono più segni di vita. Allora il comandante Battánta s'accorse che la Conca di Bédole poteva divenire per gli Alpini una trappola mortale. Verso le tre del pomeriggio del 24 novembre (tre giorni dopo la morte avvenuta il 21 ad ore 5), giunsero dall'impervio rifugio Garibaldi, due sciatori portaordini con un messaggio che gli comunicava: primo, la notizia della morte di Franz Joseph von Habsburg, imperatore d'Austria e Ungheria; secondo, l'ordine del colonnello Giordàna di abbandono del presidio di Bédole, che doveva essere distrutto col fuoco in modo che al nemico rimanesse niente che terra bruciata.
Oltre ad aver subito in vita tante disgrazie, come è stato ben evidenziato dal Giustina, si accaniva dopo morte anche la "nemesi storica", la beffa della storia, contro il simbolo dell'italianità della SAT, per mano di quelle truppe del Regio esercito d'Italia, nel quale aveva militato il Bolognini col grado di colonnello.
Racconta ancora la storia.
Il giorno seguente, 25 novembre, Battànta ordina che a plotoni sgranati la compagnia abbandoni la Conca di Bédole e risalga il sentiero della Ronchína e che nella piana rimangano solo sei militari. Ad essi, l'ufficiale ordina di sparpagliare a mucchi paglia e fieno, di accatastare all'interno delle baracche tutte le cassette delle munizioni, dell'esplosivo, delle bombe a mano e dei razzi incendiari e di versare spargendo la scorta di petrolio rimasta. A quel punto l'ufficiale Battánta coi subalterni inscenò una macabra danza funebre al motto di Kaiser Franz Joseph requiescat in pace. Poi con le torce accese, ordina di appiccare da più parti il fuoco. Di corsa gli ultimi Alpini risalgono il ripido sentiero della Ronchína, mentre l'incendio si trasforma in rogo, accompagnato dai continui scoppi delle munizioni. Dalle posizioni di vedetta più elevate, i reparti in armi, di ambo gli schieramenti, osservano la colonna di fumo che s'innalzava sulle seraccate delle Lòbbie. La 242a compagnia del battaglione val Báltea attraversò la vedretta del Mandrón, valicò il passo Brizio, e giunse stremata alla base logistica del rifugio Garibaldi, con gravi congelamenti subiti dalla truppa alle mani e ai piedi. Da allora il tenente Fabrizio Battánta ebbe l'appellativo di: l'incendiario.
Investita dalle nefaste conseguenze delle devastanti operazioni belliche, la capanna Bologníni fu ridotta in cenere, dopo 42 anni di prezioso servizio logistico e punto di riferimento simbolico della cultura satina. Nello stesso luogo, decenni dopo, la SAT pose una targa ad imperitura memoria. L'antica fabbrica del vetro di Santo Stefano, un tempo della famiglia Bologníni, è alla fine del ventesimo secolo di proprietà degli eredi della famiglia Perníci di Riva del Garda, che l'ha parzialmente adibita a colonia estiva. A Pinzolo, il palazzo Capót è stato demolito per fare il parcheggio in lato nord della chiesa parrocchiale di San Lorenzo e dispersa è stata la lapide di marmo bianco, appesa alla facciata, che ricordava al passante la casa di nascita dell'illustre cittadino Nepomucéno Bologníni. A sua memoria sono stati invece intitolati il viale che dalla Chiesa di San Lorenzo sale al ponte di Carisólo, il palazzo delle scuole elementari e alla vigilia del Centenario di fondazione della Sezione CAI-SAT, il monumento nel parco Ciclamino con questa dedica:
A Nepomucéno Bologníni
Ideatore e Fondatore della SAT
Colonnello Garibaldino
Anno 1971
A quasi cent'anni dalla morte, lo scrittore e storico Tranquillo Giustina di Caderzóne e l'editore Piergiorgio Motter di Pelúgo, hanno reso al capofila degli scrittori di Rendéna il miglior omaggio con la pubblicazione, in bella edizione, del volume Fiabe e leggende della Rendéna, che ho letto con interesse1).
Deposto il volume mi sono convinto della caratura del Genius loci, che ha riscattato l'orizzontalità del racconto popolare al punto di innalzarlo alla verticalità dell'arte, che ha valorizzato il mestiere di scrittore fino a farne testimonianza artistica, che ha sviluppato la necessità del ricercare la spiritualità nella montagna e del perseguire l'utopia della testimonianza, ammonendo che la tecnica non deve mai superare l'uomo.
Con questi presupposti le "Fiabe e leggende della Rendena" possono ricucire lo strappo che il valligiano ha fatto da decenni con la cultura. A me spiace di non sapere né dipingere, né scolpire. Ma una proposta vorrei fare a tutti coloro che in valle si occupano di arte figurativa: abbeveratevi a questa preziosa fonte scritta e la vostra mente produrrà nuove immagini, nuove creazioni; dal carrettino orizzontale il pittore e lo scultore possono passare a riprodurre in verticale una, tra le innumerevoli scene plastiche descritte dal Bolognini. Ad esempio quella del "Sass del Bargianéla":
L'orsa si leva sulle zampe posteriori tentando anch'essa di arrampicarsi su pel monolito e addentare la povera vittima, che fissava con occhi di bragia e a bocca spalancata -.
Bonapace Ferruccio, il geniale scultore dell'imponente "Orso ritto" - il totem di Caderzóne - che fa bella mostra sulla passeggiata di destra all'entrata del paese, ha già dato un esempio plastico di arte verticale.
Il "totemismo primitivo, serviva da sistema di rappresentazione delle manifestazioni sociali, utilizzando dei simboli che valgono non tanto in sè, quanto per la diversità che manifestano gli uni dagli altri e che rispecchiano le diversità esistenti nell'ordine umano". Questa frase dell'antropologa Chiara Kirschner, sintetizza fedelmente il tema conduttore su Bolognini: prendere in considerazione totem del nostro tempo e porli tra opere d'arte appositamente scelte per suscitare dialogo.
Emblematica è in tal senso anche la raffigurazione della "Vaca Rendena con vitellino", opera dell'artista solandro Luciano Zanoni e figlio, che fa bella mostra sulla ciclabile ad oriente di Caderzone.
1) Nepomuceno Bolognini, Fiabe e leggende della Rendena, Editrice Rendena Tione, 1996.
L'obiettivo di Claudio Dallagiacoma
Le chiusure favolose
di Tranquillo Giustina
Non v'è paese della Val Rendéna che non vanti una località incantevole, una meta silenziosa, un sentiero insospettato, una panoramica di sogno. Ebbene v'è una stradina, nella nostra valle - una stradina immersa nel verde - che incredibilmente assomma l'incanto, la quiete, la salubrità, la bellezza invitante di tutte le altre insieme.
Parte da Bocenágo e, attraverso i prati di Pach, di Valusélla, di Rechia, di Varcè, e di Posína, giunge alla chiesetta di San Luigi a Massimeno.
É proprio lungo questa curiosa arteria fuori mano che s'incontrano ancora - preziose reliquie del passato - le primordiali lastre di pietra che un tempo delimitavano e recintavano i poderi dei nobili e dei benestanti, le così dette "clesúre".
Ormai la Rendéna non ne possiede quasi più. Molte ne vantava, ad esempio, Caderzóne al tempo dei Lodrón e di Marco. Ma la caduta di quei casati, la voluta cancellazione d'ogni simbolo e d'ogni segno della loro presenza, e più ancora la necessità di ottimi materiali da costruzione, a poco a poco concorsero alla sparizione di queste testimonianze meravigliose della più remota civiltà contadina. E così, mentre il Bléggio - nelle Giudicarie Esteriori - tutt'ora ostenta il maggior numero di tali vere e proprie rarità (con un censimento di oltre diecimila lastre), la Rendéna è quella che, per far posto alle recinzioni "nuove", più non ne ha. O per meglio dire conserva di esse solo alcuni splendidi tratti, come quelli lungo la verde e riposante stradina di cui s'è detto.
C'è solo da sperare - e da augurarsi - che il paese di Bocenágo, così consapevole e geloso della propria identità (specialmente nelle cose del passato), sappia d'averle. E di doverle accuratamente conservare come attestazioni storiche in Val Rendena pressochè uniche.
Coralità e musica dal vivo
di Giuseppe Leonardi
I - Croz da la Stria - Ensemble di Sofia
Gli avvenimenti musicali più significativi del 1996 sono stati in Rendéna i due concerti delle serate di sabato 15 giugno nella Chiesa Decanale dell'antica Pieve (a Spiazzo Rendéna) e di domenica 16 giugno nella Chiesa parrocchiale di Vigo, organizzati nell'occasione del gemellaggio del Coro valligiano "Croz da la Stria" con l'Ensemble Rappresentante dei Lavoratori dei Trasporti della capitale Sofia della Repubblica di Bulgaría ed il ricordo del genetliaco del Coro della SOSAT-SAT, tutt'ora al vertice della Coralità tridentina, dopo settant'anni dalla costituzione.
L'aver tenuto i due concerti nelle due Chiese è stata un'idea vincente: l'utilizzo delle "chiese aperte" con il loro inscindibile legame con la storia religiosa (baptismus et funus, l'inizio e la fine della vita esistenziale di ognuno) e civica è stata una scelta che va sottolineata per incoraggiare altre occasioni simili. Non ci sono auditorium più significativi in valle, dove le chiese e le montagne rappresentano l'"unicum" della storia millenaria, che amalgama nel popolo i due poli: quello religioso e quello municipale - laico.
L'Ensemble nasce a Sofia come coro maschile degli operai delle ferrovie statali nel 1936, quindi ha festeggiato i sessant'anni, e due anni dopo, nel 1938, uno dei migliori direttori di coro Krum Bojadgiev fonda un coro femminile. Negli anni che seguono i due cori continuano la loro attività da indipendenti. Nel febbraio del 1951 per merito del direttore d'orchestra Ruslam Raicev e del coro Bojadgiev avviene la costituzione dell'Ensemble mediante la fusione dei cori maschile e femminile con l'aggiunta dell'orchestra sinfonica. Da allora l'Ensemble si afferma come esecutore indiscusso di musica di valore internazionale ed è premiato nel 1958 con la medaglia d'oro del vincitore del "Festival repubblicano" di Bulgaria, col quale si poté fregiare del titolo di "Laureati". Da allora non scende dal primo posto nei successivi concorsi e alla direzione si alternano eminenti direttori d'orchestra quali: Janko Tuntov, Benio Totev, Liuben Lilkov, Gheorghi Sanev. Dal 1965 direttore unico del coro e orchestra è Krum Maximov che rimane per 25 anni. É il periodo del massimo impegno perché l'Ensemble inserisce nel già vasto repertorio, musica ecclesiastica degli Slavi, folclore bulgaro ed opere di Bise, Brams, Brukner, Ciaikoschi, Donizetti, Dvordgiak, Haiden, Hendel, Kodai, Monteverdi, Mozart, Palestrina, Schubert, Verdi, Vivaldi. Per il suo impegno raggiunge successi che sono premiati con la decorazione d'oro "Santi Cirillo e Metódio" e con il titolo di "Rappresentante" della cultura musicale bulgara. Tiene concerti oltre che in Bulgaria (dove incide per la radio-televisione di Stato) in Cecoslovakia, Francia, Germania, Italia, Polonia, Ungheria. Dal 1990, quando Maximov abbandona la direzione, l'Ensemble ha un periodo di riflessione alla ricerca di un rinnovamento. Nel 1995 assume la direzione dell'Ensemble il maestro Konstantin Patronev, il massimo in Bulgaria, ma che ha perfezionato la sua preparazione alla scuola dei professori Arvid Jansons e Victor Fedotov del Conservatorio di Sankt Peterburg, la città posta in fondo all'estuario di Finnlandia del Mare Baltico. Dal 1986 è direttore d'orchestra e del coro a Pernik. Poi si trasferisce in Estonia. Successivamente diventa maestro dei cori "Rodna pessen", "Slavia", "Dobri Cristov", "T. Nenkov". Dal 1990 è direttore generale della Filcarmonía di ragazzi con partecipazione mondiale denominata "Pioner". Partecipa ai festival musicali internazionali di Praga 1991, di Antalia 1992 e di Germania 1993. Dal 1995 è direttore generale dell'Ensemble di Sofia e nel giugno 1996 approda in Rendéna.
La calda luce della sera spiove all'interno della chiesa della Pieve, formando strisce rossoazzurre sui primi banchi affollati di pubblico. Scontati sono l'attenzione e l'apprezzamento del pubblico per i cinque canti presentati dal coro "Croz da la Stria" diretto dal maestro Flavio Maturi, che lo schiera sui gradini dell'ambone. Il colpo d'occhio è accattivante perché l'austera architettura dell'abside e le tinte a dominante marrone delle pitture giganti laterali si uniformano ai toni della stoffa e della foggia degli abiti dal tratto classico paesano del settecento dei coristi: è un tutt'uno nell'armonia d'un tempo perduto, ma rinnovabile dall'arte. Sì, perché il coro canta con arte: sono acute voci sopranili in dolci ovali femminili e voci maschili baritonali, incorniciate in visi dei quali tre sono impreziositi da folte barbe. Ad un certo punto si eleva, struggente, la voce del solista. La cerco, è quella di un tenore, che appare col volto del Cristo con barba e chioma fluente. Nell'insieme mimano con compostezza ieratica corali armoniosi per finezza e perizia vocale, che il Maestro sfuma in finali fievoli al punto di farli passare a spegnersi per la cruna di un ago.
Il "Coro Caré Alto" veste in camicia azzurra del tempo nostro: sono volti squadrati, tetrágoni, spigolosi, abbronzati dai raggi del sole. Di gente che lavora all'aperto, che con voce tonante guida la mandria, sprona cavalli e muli, aizza i cani, dà la voce a chi in alto lavora sui tetti, nei campi, nei boschi, nelle malghe, nei pascoli. Facce di gente attiva della montagna, che una volta riunite in coro cantano. Come? Forte e rudemente, con voci intonate ad un rozzo rispetto archeologico della melodia orale, abbarbicata all'humus etnico e che prorompe come fa il refolo quando discende dal Cavénto e s'infila mugolando nel Bus dal Gat nel fianco orientale del Rifugio al Caré. Ma che sanno anche salmodiare una ninna-nanna, a fil di voce, come può fare un padre per un bambino che si addormenta nel grembo di sua madre. Con questo patrimonio vocale il maestro Mario Chiodega ha saputo mantenere e valorizzare la timbrica originale del canto virile della montagna, quello voluto e suggerito dalle armonizzazioni del vecchio maestro Luigi Pigarelli. Chiodega, acculturatosi nel rigore del Coro della SAT, e fine conoscitore delle vicende melodiche rendenesi, con senso ammirevole ha inserito nel concerto due "cante" di guerra, nate giusti ottant'anni fa. "Al comando dei nostri ufficiali" è nata nel 1916, nelle prime linee delle Tofane d'Ampezzo ed il rimando è alla mina del Castelletto e a cantarla contro "E tu Austria che sei la più forte, fatti avanti se hai del coraggio" era la 96a Compagnia del Battaglione degli Alpini Monte Anteláo, comandata dal quel capitano Rossi che disse ai suoi soldati prima dell'assalto: "Ora aiutate i vostri compagni a morire bene". La seconda "Sui Monti Scarpázi". Il rimando è ai 40 mila trentini mandati a combattere "per difendere l'Imperatore" d'Austria e a morire contro le armate cosacche di Aleksej Alekseevic Brusilov, generale comandante delle truppe di Nicola II, imperatore della Russia. Tra il pubblico i vecchi hanno capito il rimando al prezzo della vita che tanti Kaiserjäger del Tirolo italiano hanno pagato all'obbedienza. Il messaggio di condanna il coro l'ha espressa con veemenza quando ha intonato con il pieno delle voci "maledeta sia quela guera che ha dato si tanto dolor, il tuo sangue hai donato ala tera, hai distruto la tua gioventù", tanto da far rintronare la navata della chiesa. Ed infine con voci sommesse, il ricordo rassegnato con quel "t'ho cercato tra il vento e i crepazi, ma una voce soltanto ò trovà" di chi caduto e disperso non ha avuto sepoltura cristiana, perché "quando fui sui monti Scarpazi, miserere sentivo cantar". Canti autentici, popolari, storici che andrebbero uditi in piedi e sull'attenti, come si faceva una volta ascoltando l'inno dell'Heimat.
Eccezionale il concerto di Konstantin Patronev che si presenta al pubblico con un coro misto di 25 elementi a 4 voci e con un apparato orchestrale composto da 21 elementi (7 primi violini, 2 secondi violini, 2 viole, 1 violoncello, 1 contrabasso, 3 flauti, 3 clarinetti, 1 tromba (+trombetta), 1 tuba) e coadiuvato nell'introduzione ed accompagnamento saltuari da un'organista. Una completezza solenne di suoni e di voci, integrata in una sublime grandiosità su vari temi: pieno di pathos "Te Bê Poem" (Cantiamo Te o Signore) dalla liturgia cristiano-ortodossa di Dobri Christov, nostalgico il "Dostojno est" (É cosa giusta) di Bortnianski, esaltante il "Gloria" di Vivaldi, solenne l'"Ave Verum Corpus" di Mozart, incantevole la Sinfonia n° 1 in re maggiore di Franz Schubert. Il cantato è espresso nelle lingue: slava latina e italiana, nel rispetto dei testi come nei tre cori tratti dall'opera il "Nabucco" e il "Trovatore" di Giuseppe Verdi e dalla "Lucia di Lammermoor" di Donizetti. Il "Va pensiero" è bissato a grande richiesta del pubblico. Al termine del programma, il maestro Konstantin è consapevole di offrire un omaggio squisito e vibrante per la forte emozione che può suscitare un pezzo forte della cultura alpinistica. Affida il preludio ai flauti e al contrabasso che ricamano un fine arpeggio; poi fa partire il coro a voci piene e compenetrate che intona alto e solenne: "Dio del cielo, Signore delle Cime" di Bepi De Marzi.
Fu allora che nella navata non più rischiarata ed immersa nella penombra serale e in un silenzio di tomba, accadde l'incredibile: i coristi nostrani ascoltavano a bocca spalancata; i rari alpinisti stupefatti non credevano alle loro orecchie; tutti gli altri erano impietriti ed incapaci nel distinguere il canto del coro con la melodia degli strumenti a corda, tanto erano affiatati. L'emozione fu generale e nessuno degluttiva, per non rompere l'incanto. L'ampia volta della chiesa diffondeva immagini zampillanti di visionaria bellezza sonora e risuonava del forte messaggio di fratellanza di chi era venuto appositamente dall'Est a porgerlo garbatamente all'Ovest. Il finale è riaffidato ai flauti, alle viole e ai nove violini, che gradatamente spengono i suoni come il crepuscolo gli ultimi bagliori della luce del giorno.
Non è la prima volta che assisto alla concertazione strumentale di pezzi tratti dal repertorio di canti della montagna e quel musicista che la sa fare, è bene che la faccia, perché all'idea originale del primo autore aggiunge un ulteriore alone di grandiosità: l'aggiunta di "De Marzi in concért" è stato un risultato stupefacente.
Per la grande richiesta di un bis del pubblico che non abbandonava i posti a sedere, il Maestro gli accordò un finale da apoteosi celeste, che lo invitava al sogno di un mondo riconciliato. E chi intuì il messaggio andò in estasi. Si è capito subito che si trattava del pezzo forte dell'Ensemble, tanto venne eseguito coro e orchestra assieme con disinvolta sicurezza e potenza.
Alla fine non credo che il pubblico sapesse per quanto tempo fosse rimasto in ascolto: comunque oltre due ore per ogni concerto.
Per il risultato lusinghiero dell'iniziativa di notevole spessore culturale, un ringraziamento incondizionato va attribuito al "Coro Croz da la Stria" che si è assunto l'onore e l'onere della scelta coraggiosa e qualificante del tipo di gemellaggio e che ha meritato un pubblico d'elite qualificato. La cultura, quella autentica, appartiene a pochi volonterosi, che sanno dove andarsela a ricercare e che si accontentano anche di un concerto all'anno, purché il programma musicale sia sostenuto da musica di autore ed eseguita a buon livello. Così è stato e gli appassionati soddisfatti possono attendere anche un altr'anno.
La bionda Stambolijska Jordanka, presidente dell'Associazione "I.B.E." (Italia-Bulgaria in Europa) per gli scambi culturali, ha commentato con accenti appassionati la presentazione dei brani dei concerti. Riferisco solo due spezzoni: - In Bulgaria stiamo attendendo con trepidazione da anni un riconoscimento della nostra religione ortodossa da parte del Pontefice di Roma - e - Abbiamo tanto bisogno tutti del patriottismo del grande Giuseppe Verdi.-
A Lei ho chiesto chi avesse armonizzato il "Signore delle Cime" e questa è stata la risposta: - De Marzi ha assistito ad un nostro concerto; è rimasto lusingato e pieno di ammirazione; nei conversari col direttore Konstantin ha promesso che avrebbe steso la partitura per coro e orchestra e gliela avrebbe regalata. Così è stato. Per l'Ensemble il dono è stato un gesto disinteressato della grande umanità di un grande compositore e il "Signore delle Cime" viene inserito nei concerti perché ormai è internazionale. -
II - Al vertice della coralità tridentina
Il Coro della SAT, definito dal musicologo Massimo Mila "il conservatorio delle Alpi", con un convegno sui 70 anni dalla sua istituzione, si è festeggiato nel cuore delle Dolomiti di Brenta con un incontro nella prestigiosa sala Hofer dell' Hotel Relais Club des Alpes di Madonna di Campiglio, sabato 6 luglio, sul tema "la musica e la montagna", e domenica 7 con un concerto nel talamo delle guglie del Brenta ai rifugi della SAT Sella - Tuckett.
Nei due giorni è stata evocata la memoria storica del lungo percorso del Coro, coordinato dal professore Angelo Foletto e con il notevole contributo di illustri esperti.
Foletto ha esordito con un concetto: "nella storia ci sono dei segnali che non si cancellano mai; la coabitazione coatta dei profughi del Tirolo italiano nell'interno dell'Austria (Boemia) imponeva il conoscersi". É da lì che parte in embrione l'idea del cantare insieme per il merito dei Fratelli Pedrotti. Per rievocare questa prima esperienza, il Coro in aiuto al convegno intona nella suggestiva sala hofferiana "Canto la Patria mia, di Boemia il sacro suol, dove tutti son fratelli di Boemia, sacro suol" su l'armonizzazione di Luigi Pigarelli. Il rimando è al degasperiano grido di dolore "in exitu Israel ex Aegypto!", pronunciato al Reichstag di Vienna e riferito alla tragedia dell'esilio dei profughi a seguito della dichiarazione della Prima Guerra Mondiale. Delle cante della guerra, Foletto dice che bisogna parlarne "con deferenza", perché sdrammatizzano la tragigità dell'inutile massacro, come in "Monte Canino", che il Coro intona con un adagio come volesse imitare la lentezza delle tradotte stracariche, che "trasportavano migliaia degli Alpini, su su correte è l'ora di partir". E così di seguito tra rievocazioni e canti tratti dal lungo percorso dei 70 anni, fino a presentare gli ultimi nati, fra l'altro già incisi.
Giampaolo Minardi, critico musicale, ha asserito che "per merito dei primi armonizzatori come il Pigarelli, il repertorio iniziale del Coro della SAT utilizzava le armonie popolari che coagulavano le immagini vive e reali della vita della gente, dei suoi amori, della sofferenza della guerra e che, fissate sullo spartito, venivano sublimate nella melodia che poi il Coro cantava". Ed aggiunge "è da qui che nasce il contributo degli armonizzatori che, come disse Andrea Mascágni, è un'interpretazione armonistica delle melodie", come dire che il modo di armonizzare seguiva la melodia".
Michele Straniero, esperto giornalista del folclore musicale mondiale, con dotta conoscenza e con ricchezza di particolari ha focalizzato la situazione attuale della coralità internazionale e prima della sua ampia relazione ha esordito con un preambolo: "come nelle cause canoniche c'è un funzionario del Sacro Collegio che sostiene la parte dell'advocatus diabolis, così mi calo nei panni del critico, che esprime subito un concetto base: "il Coro della SAT non esiste più come modello storico, perché si è staccato dall'humus etnico; il suo repertorio rientra nel canto popolaresco della musica leggera e l'insidia oggi è nell'abuso del melodramma originale per abbracciare l'inserimento di armonizzazioni rielaborate, al punto che il suo ormai è un modo di cantare armonistico sofisticato, ad esempio con l'uso dei falsetti".
Altro relatore è stato Ettore Zeppegno, ingegnere del suono, che fu assistente musicale per oltre vent'anni nelle registrazioni discografiche del Coro della SAT. La sua è stata un relazione professionale di alto livello che così riassumo: "mi sono stupito fin dall'inizio del fatto che il Coro della SAT non ha voci impostate, come quelle liriche che in sede di registrazione comportano a contatto con le altre voci, notevoli problemi di armoniche di disturbo".
Cesare Maestri, il geniale sestogradista, ha portato una sua testimonianza umana: "nelle condizioni di cammino uguale per tutti, di sofferenza, di problemi coll'altitudine, di bisogno di solidarietà, gli uomini della montagna a qualsiasi latitudine, cantano modulando alla stessa maniera, così almeno ho sentito io".
Vero pezzo d'autore è stato l'intervento mirato del mattatore, del guru del convegno, un "Vecio".
Ufficiale delle Truppe Alpine, arruolato nel 1942 nell'Edolo e mandato a combattere in Ucraina nella campagna contro le Armate Russe. Comandato dal maggiore Dante Belotti, il Battaglione, composto dalle compagnie 50, 51 e 52 Alpini e dalla 110 Artiglieria Alpina, in quel fatidico 27 gennaio 1943, ingaggiò in testa alla colonna la durissima battaglia di Nikolajewka, quando dopo il sacrificio del Battaglione Morbégno che non c'era più, iniziato l'attacco dell'Edolo, il generale Luigi Revèrberi compiva il gesto rimasto famoso: salito su uno dei semoventi germanici fermi presso il viadotto della ferrovia di Nikolajewka, ordinò al conduttore di mettersi in movimento e, avanzando verso il paese, lanciò il grido: "Tridentina avanti". L'Edolo infranse l'accerchiamento e per migliaia di Alpini fu la salvezza.
Quel "Vecio" che catturato dal 9 settembre del 1943 con tanti altri Alpini dall'irrompere dal Brennero in Italia delle cinque Panzerdivision della Wehrmacht, subì per due anni l'onta della prigionia nei Lager della Germania hitleriana.
Quel "Vecio" nel 1945 ritorna a baita e che cosa fa?
Rispondo con la domanda: Chi è che non ha conosciuto il Coro Incas? Chi è che non è andato almeno una volta ad ascoltare i suoi eccezionali cantori e non ha compreso quanta e nobile energia musicale si sprigionava da quel piccolo gruppo di autentici artisti?
Scrisse il critico musicale Giulio Confalonieri.
"Il Coro Incas, ossia il Piccolo Coro della Val Seriána, vede la luce a Fioriáno, nell'alta Bergamasca, ossia nello stesso luogo ove nacque il suo ideatore, animatore e direttore: il maestro Mino Bordignón. E vide la luce per un atto di fede del Bordignón stesso, per uno di quegli impulsi spirituali che, all'inizio, hanno la consistenza di un sogno, ma che poi, appunto in grazia del loro fuoco interiore, divampano e si concretano gagliardamente. Tornato dalla guerra e dalla prigionia, testimone di tante crudeltà, di tanti rancori, di tante ingiustizie, Bordignón sentì che unicamente la musica e, in special modo, la musica corale poteva ancora riallacciare certi legami ideali e promuovere umane alleanze. Si mise all'opera, laggiù a Fioráno, scegliendo i suoi collaboratori fra creature come lui, fiduciose e incrollabili. L'avventura cominciò lietamente, seppure con immediato impegno e con rigore assolutamente professionale. L'atto programmatico di esprimere e di interpretare direttamente l'anima musicale del popolo restò invariato. Ma dopo sette lustri, quali sviluppi, quali affinamenti, quali avventure e quali conquiste! Mino Bordignón e il Coro Incas hanno basato tutto il loro impegno su due fondamentali considerazioni.
La prima, che la voce umana è veramente voce dell'anima e che la varietà dei suoi timbri, le possibilità dei suoi impasti, le eventualità delle sue inflessioni, sono infinite.
La seconda, che le immagini musicali del popolo, mentre racchiudono in sè stesse qualcosa di eterno ed immutabile, quasi un legato trasmesso senza corrompersi di generazione in generazione, risultano, nello stesso tempo, estremamente sensibili agli accostamenti degli individui e del tempo in cui gli individui consumano la loro esistenza. Non c'è nucleo melodico o ritmico popolare che non abbia subito alterazioni profonde, che non sia stato variato, in mille modi e, dentro limiti della sapienza popolare, variato proprio nel senso che il termine acquista in sede d'arte della composizione. Forti di questi due principi, Mino Bordignón e i suoi amici non hanno esitato a rinnovellare, secondo la spontanea e irrefutabile condizione dello spirito attuale, quanto noi potremmo definire le radici del canto popolaresco. Opera di grande merito musicale e di assoluta legittimità estetica.
Nel vasto repertorio del Coro Incas sono stati espressi tutti i sentimenti fondamentali e tutti gli oggetti precipui della fantasia popolare: la natura, compagna indecifrabile ma fedele; l'amore, concepito in forme pudiche e gentili, in modi che potremmo dire cavallereschi; il culto e la nostalgia della terra natale; il desiderio di scoprire il mondo, d'incamminarsi e, nel contempo stesso, di non lasciare la casa. A codesti sentimenti s'accompagna, ostinato il ritmo della vita che fluisce, che scorre inarrestabile, quasi sempre dura; che esige coraggio, pazienza e letizia di cuore. Per questo, le melodie raccolte non tralignano mai nel morbido, nel lezioso, nel compiaciuto; ma sono sempre sostenute, anche nei momenti di maggiore abbandono e di maggiore tristezza, da una specie di correttivo virile, da un respiro ampio, da un contorno francamente plasmato.
Favoloso ci sembra proprio un attributo adatto al Coro Incas. La sua bravura sembra infatti consistere oltre la realtà concreta, e quel suo ardore poetico, quella sua immaginazione, quella sua eloquenza naturale, quella sua capacità di animare l'inanimato lo innalzano, veramente nel regno della fiaba".
L'Homo faber dell'Incas, dopo un faticoso cammino esistenziale e ora prestigioso e ricercato direttore di coro e d'orchestra, è salito a Madonna di Campiglio, invitato come relatore nel convegno per rendere testimonianza lungo il percorso della "memoria storica del Coro della SAT", per compiacersi e per rampicare da "Vecio Alpino" fino ai rifugi Sella-Tuckett, dove riascoltare "il Conservatorio delle Alpi".
Per gentile concessione, ecco il testo integrale del Suo intervento.
" Madonna di Campiglio 6 luglio 1996 nel 70° anniversario di fondazione del Coro della SAT.
Il musicologo e critico musicale Angelo Foletto, coordinatore di questo incontro, mi aveva invitato - onorandomi moltissimo - ad occuparmi del primo periodo delle armonizzazioni del Coro della SAT ("prima prattica" direi, con una citazione monteverdiana), ma leggendo la bella pubblicazione dedicata al 70° del Coro, trovo che Andrea Mascágni e Mauro Pedrotti sono talmente esaurienti nel dire di Luigi Pigarelli e Antonio Pedrotti, artefici delle prime pertinentissime intavolature armoniche della SAT, che mi è venuto spontaneo di ribaltare la proposta per rileggerla secondo quel procedimento del "canone", in misura che viene definito "inverso-contrario"1)
Incomincio col soffermarmi sul suono, diciamo pure sound, del Coro della SAT, valutandolo come "fenomeno etnofonico", il cui fascino e la cui seduzione hanno attratto (e dentro vi sono immersi come in un bagno rigeneratore) non solo gli armonizzatori della sunnominata "prima prattica", ma (con una seconda citazione monteverdiana) anche quelli della "secunda prattica", alcuni dei quali ho frequentato personalmente e che hanno i riveritissimi nomi di Arturo Benedetti-Michelangeli, Renato Dionisi, Giorgio Federico Ghedini, Teo Usuelli, Bruno Bettinelli, Renato Lunelli, Aladar Janes, Lino Liviabella e via via alla generazione dei Venéri, Franceschini, Zandini, Zuccante.
Evidentemente il "suono - sound" del Coro della SAT è un fenomeno sonoro archètipo - primordiale dell'area tridentina, scaturito da cantillazioni arcaiche che, insieme alla tensione del linguaggio parlato esprimono le misteriose, arcane incidenze etnografiche e etnologiche di quell'ambiente montano e altomontano.
In codesta cassa di risonanza, tersa ed insieme lapidaria, la voce cantata trentina, priva di effetti vibratili e di inflessioni edulcorate cadúche, aderisce alle risonanze naturali delle valli e delle montagne "tendendosi" come in una pittura a spatola, intrisa qua e là dai bianchi bagliori dei falsetti (in un coro di soli uomini un invito alle fanciulle a farsi un poco più in qua?), e si afferma come poetica del canto ambientale trentino.
A proposito di "cantillazioni", mi vengono in mente, altri esempi di cantillazioni medioevali delle lontane abazzie del IX secolo (Metz, San Gallo, Reichenau, Montecassino, Engelberg, ecc), nelle quali le inflessioni dialettali, annotate neumaticamente, influenzarono i "modi" (I - III - V - ecc), con i quali intonare le Messe, i Vespri, i Mattutini e le Compiete; qualcosa del genere accade nei falsibordoni dei canti sardi, dai quali riverbera il senso della "inarrestabilità" del tempo, o ancora nei "sottovoce" delle villotte migratorie friulane, per cogliere il senso estatico della nostalgia, o, andando decisamente più lontano nei tempi, negli jodler descritti nel suo Mesopágon da Giuliano l'Apostata con i quali i popoli Galli inviavano a distanza i loro messaggi, descrivendo con suoni vocalici balzanti la dentellatura delle loro montagne.
Passando ora a discorrere della cosidetta "prassi esecutiva" della coralità trentina, riemerge qui ancora una volta, con un malcelato senso di rivincita, quella legge compensativa che in natura trasforma in positivi i cosidetti "limiti di parte". Per cui la mancanza di attributi belcantistici, basata sulla competitività qualitativa delle voci solistiche, di cui il nostro paese, irriducibilmente melodrammatico, abbonda (si prendano ad esempio i cori lirici composti da voci tutte selezionate nel senso belcantistico) ha condotto il Coro della SAT a mediare, esaltandolo, il significato della sintesi armonica, fondata sul totale equilibrio delle parti, perseguibile solo con la rinuncia all'individualismo e ad ogni altro narcisismo vocale.
Anche a questo proposito il fatto non è del tutto nuovo se penso all'analogo modo di "fare polifonia" delle scuole inglesi e gallesi, la cui estraneità fisiologica al belcantismo, rimediata dalla consapevole giustapposizione delle parti, si trasforma in una lettura tersa, trasparente, intelligibile in ogni sua più piccola relazione armonica e contrappuntistica; ciò che invece il semplice "vibrato", appena che ecceda l'ambito della sana modulazione, interdice ed ottenebra con la differenza oggettiva che, mentre le esecuzioni polifoniche britanniche sono in difficoltà a reggere interpretativamente sulla distanza i contenuti dottrinari della grande polifonia europea, sconfinando spesso nello stucchevole perché cultura britannica non è, la condizione del Coro della SAT si ricarica di canto in canto sotto la spinta di contenuti e significati che gli appartengono intrinsecamente.
Assurto al soglio di "ineccepibile letteratura poetica", il fenomeno etnofonico del Coro della SAT, ha sedotto - come dicevo - illustri musicisti, i quali, anziché comporre musica, hanno scritto o armonizzato musiche destinate esplicitamente alla poetica e agli stilemi esecutivi del Coro della SAT, arricchendone il già vasto repertorio. Tant'è che, sospinto fuori dai suoi ambiti storici ed etnofonici, ho dovuto io stesso rilevare criticamente che altre canzoni popolari e popolaresche, concepite con l'estro della genericità corale, provocarono più di un contraccolpo alla vocalità trentina.
Dopo codeste considerazioni, con una virata di qualche grado, mi ritrovo di fronte ad un ulteriore aspetto della coralità trentina che definirei "storico".
Nel gennaio del 1976, su una Rivista intitolata "Coro" (Rivista che non ha avuto molta fortuna, superata in breve da "Cartellina", il bimestrale fondato dal compianto Roberto Goitre ed ora condotta da Giovanni Acciai per i caratteri della Suvini - Zerboni), fui invitato a scrivere insieme a Massimo Mila, Giorgio Vacchi, Claudio Noliani, Giancarlo Bregani, Carlo Ferrario, Luigi Molfino, sul "Ruolo del Coro della SAT ieri e oggi".
In quella ormai circostanza mentre, per quanto concerne la ricerca e la passione, additavo a modello il ruolo della SAT, insistevo tuttavia affinché i nuovi cori "sopraggiungenti" si guardassero dal copiare pedissequamente un modello autoctono ed integro qual'è il Coro della SAT, per recuperare e valorizzare invece i propri "reperti" territoriali; teoria questa sulla quale ho sempre insistito, adducendo anche l'esempio degli Istituti Filologici Francesi i quali, oltre a regionalizzare i patrimoni etnologici, suddividono in classi le "Chansons à danzer" dalle "Chansons à boire", le "Chansons a rive", dalle "Chansons à marié", ecc.
Orbene in quella lontana circostanza, esaminando il processo storico - semantico del Coro della SAT, scrivevo: "...Beneficiario, sia pure per linee indirette, di una coralità fiorita sugli stilemi del "corale luterano", la cui suggestività (unita alla funzionalità dell'assetto armonico) aveva fatto immediatamente presa sui paesi limitrofi della Germania raggiungendo, con la cattolicissima Austria, anche le annesse province tridentine, il Coro della SAT (come dice Giosué Carducci della musica: uscita di Chiesa per diventar profana), ha esteso ai canti della terra, per mano di Luigi Pigarelli ed Antonio Pedrotti suoi primi armonizzatori, gli stessi essenziali procedimenti armonici saldando in un'unica passione il sigillo della religione e la memoria degli antenati..."
Codesto felicissimo risultato ha affascinato l'intero nostro Paese ed è stato la chiave di volta per ricuperare e diffondere, a distanza di secoli (praticamente dalla polifonia cortigiana seicentesca) il modello d'una coralità popolare accessibile, ma fatta pur sempre di musica vera, fuori dai beceri canti propagandistici del "ventennio".
Da qui in poi, come tutti sanno, c'è stato ovunque un proliferare di Cori che i tempi, la più diffusa cultura, le maggiori relazioni internazionali, hanno diversificato; anche se pochi, ahimè, sono coloro che hanno lavorato con sistematicità sul versante del recupero e della valorizzazione etnologica.
Quanto al Sottoscritto, appena tornato dalla Guerra di Russia e dai Lager di Germania, ho avviato nel 1949 in terra Bergamasca quel gruppo corale che alcuni ricorderanno dall'esotico nome di INCAS (Istituzione Nuova Corale Alpinistica Seriána) al quale, dopo trentacinque anni di strada in salita, è venuto purtroppo il fiato grosso e si è seduto per passare, però fortunatamente, la mano ad altre sopraggiungenti realtà più fresche, con altre esigenze, altri ideali, che hanno preso il nome di "Civi Cori di Milano".
Sono tuttavia molto lieto non solo di ammettere, ma di confermare in questa circostanza che anche queste nuove realtà corali civiche, nate e cresciute con me in una grande città come Milano, e che nel volgere degli ultimi quindici anni hanno interessato oltre cinquemila coristi, distribuiti tra le più varie letterature corali, sono il prosieguo naturale di quei canti intonati innocentemente una sera dell'anno 1926 nella Sala Grande del Castello del Buon Consiglio di Trento e che, dopo secoli di oblio, a far tempo dalle grandi polifonie italiane del Cinque e Seicento, hanno riacceso il fuoco della coralità (e, se mi permettete, anche della sana socialità) nel nostro Paese".
Discendendo dalle balze levigate dei rifugi Sella - Tuckett lungo il sentiero che immette nella val Asinella, il dialogo è stato incessante e vivace. Infine il vecchio Maestro si è congedato da me con questo assioma: "Io non so che cos'è l'eternità, ma la Coralità popolare tridentina avrà l'immortalità".
Ora di Mino Bordignón posso parlarne anch'io per averlo conosciuto, finalmente, da vicino.
Nota
1) inverso-contrario - con una esemplificazione semplicistica significa: sulle note dell'armonia del tema musicale, intervenire con una sofisticata forma intellettuale di costruzione delle note che formano la melodia, ad esempio: il prendere l'ultima nota e trasportarla all'inizio.
Arte in Rendena
La Crocifissione
della Chiesa Parrocchiale di Javrè
nel solco innovatore di Simone II Baschenis
di Luigi Loprete
Quando, nei primi anni Ottanta, feci in Rendena delle ricerche e dei rilievi sulle pitture locali dei Baschenis, dovendo scrivere su questo argomento per "Il Giornale Italiano d'Europa", rimasi colpito dalla personalità eclettica e, in un certo senso, innovativa di Simone II Baschenis, la personalità più importante nel contesto di quella famiglia di affreschisti bergamaschi che operarono nel Trentino tra il 1460 ed il 1545.
Egli ebbe come primo maestro, direi naturale, il padre Cristoforo II, autore di molti affreschi nelle Giudicarie, al quale si attribuiscono, buona parte, delle pitture murali dell'interno della chiesa di Sant'Antonio Abate di Pelugo.
Simone II fu maestro del figlio Filippo, pittore questo più definibile da un punto di vista biografico, che da quello strettamente artistico, il quale in base ad una documentazione, anche se scarna, avrebbe aiutato il padre in talune importanti occasione. Comunque sono in corso da parte della critica, ricerche per meglio delineare la sua personalità pittorica e, quindi, stabilire l'influenza che può avere avuto sul padre.
Simone II è l'autore di due "Danze Macabre", molto conosciute in Italia ed all'estero. Esse esprimono il concetto della morte uguale per tutti. Una di queste fu realizzata nel 1519 a Carisolo (Chiesa di Santo Stefano). L'altra fu dipinta nel 1539 a Pinzolo (Chiesa di San Vigilio). Tali opere murali sono capaci, ancora oggi, sia per il tema trattato che per una loro immediata comunicabilità, di destare nei fedeli una forte emozione. Mettendole a confronto, si possono rilevare due tappe di un processo evolutivo che sarà una costante, attraverso il tempo, dell'arte di Simone II.
Il maestro bergamasco, secondo una copiosa documentazione ed una ricca bibliografia, termina la sua complessa esperienza pittorica trentina nel 1545 circa. I suoi ultimi anni, dal 1540 al 1545, in questa regione sono contraddistinti da un lavoro creativo intenso che porta alla realizzazione, a volte, di opere meno conosciute, ma pur tuttavia rilevanti.
Nonostante il pessimo stato di conservazione di molti suoi dipinti murali, dovuto al clima impervio e ad eventi storici negativi, il messaggio pittorico che riceviamo dalle sue opere, nella fase finale, è chiaro e affascinante.
Si deve a critici, a uomini di cultura, solerti ed appassionati, se il patrimonio affreschistico del IV decennio di Simone II è stato evidenziato in modo da concorrere a rendere più completa la sua storia d'artista. In seguito a tali studi si possono definire alcune date, con una certa attendibilità: 1540, affreschi realizzati a Sant'Antonio di Mavignola; 1541, affreschi eseguiti a Vigolo Baselga distrutti come quelli di Cologna, questi ultimi firmati e datati da Simone II e dal figlio Filippo; 1542 circa, affreschi realizzati nella chiesa di San Vigilio a Spiazzo; 1543, affreschi eseguiti nella chiesa parrocchiale di Javrè, la cui firma e datazione sono state scoperte da don Luigi Felicetti nel 1913 e riportate dallo stesso su "Frammenti di storia di Rendena" nello stesso anno.
Gli affreschi che Simone II realizzò sulle pareti presbiteriali della chiesa parrocchiale di Javrè furono sette: "Crocifissione", "Nascita della Vergine", "Presentazione al Tempio", "Annunciazione", "Nascita di Gesù", "Adorazione dei pastori", "Adorazione dei Magi". Sottolineiamo che detti affreschi, ai primi anni del Novecento, erano ancora sconosciuti, perché coperti dallo scialbo e non erano documentati. Che dette opere fossero ignote, è riscontrabile leggendo il libro "Guida delle Giudicarie" di Cesare Battisti (1909) dove a pagina 144, in un capitolo dedicato a Javrè, l'autore oltre a precisare dati naturalistici e sociali delinea aspetti artistici della chiesetta di San Valentino, ignorando però gli affreschi della parrocchiale.
Di queste opere, quasi completamente distrutte, si salvò, solo in parte, la grande "Crocifissione" dipinta sulla parete di fondo. Essa è oggetto di studi più aggiornati, perché sopra il momento, forse, più alto della creatività di Simone II.
L'opera, nonostante ne manchino alcune parti, appare struggente e, al tempo stesso, spettacolare, da qualsiasi punto la si osservi.
Il maestro bergamasco interpreta liberamente il momento drammatico di Gesù crocifisso, utilizzando così, meglio, le sue possibilità lirico-artistiche, altrimenti legate ad una incombente iconografia. Questo risultato dimostra, se ce ne fosse stato bisogno, la liberalità dei committenti portata a capire l'estrosità del pittore. Essi avevano ormai assimilato la lezione di una rinnovata cultura, in senso rinascimentale, che giungeva da Trento. Cultura, di fatto, voluta dal Vescovo Bernardo Clesio e che continuava il suo corso anche dopo la morte del presule avvenuta nel 1539.
L'opera rileva la proverbiale vena di narratore popolaresco, il quale sa esprimersi, in questa occasione, con particolare esuberanza, superando sotto il profilo strutturale e spirituale ogni suo precedente lavoro.
Gli aspetti stilistici della scena sacra mettono in viva luce la personalità di Simone II, tutta protesa verso una modernità che trova punti di riferimento in quei pittori, come il bresciano Romanino, portatori consapevoli e no, di una cultura pittorica veneta.
I colori delle raffinate tonalità, i volti liberamente espressivi, le pieghe delle vesti affrancate da ogni accademismo, il profondo sfondo di paesaggio di architetture torrite, le forme quasi dilatate delle figure per rendere più respiranti le figure stesse, sono fattori questi che concorrono, in larga misura, a rendere l'opera incisiva, per la memoria, dove tutto appare, rispetto al passato della pittura dei Baschenis, anticonformista. Anche le due "Danze macabre" della Rendena, accostate a quest'opera, sembrano lontane, immerse in un passato remoto.
Si può dire che Simone II, con tale impegnativa esecuzione pittorica, chiuda splendidamente la sua storia creativa trentina, durata quasi mezzo secolo.
I Raduno "Giovanni Spagnolli"
Accolto con l'entusiastica ospitalità dei gestori Carlo e Flavia Galazzini si è svolto il 21 Luglio 1996 al rifugio Mandrón, nel cuore dell'Adamello, un incontro, folto e partecipato, di alpinisti di tre generazioni. Tre interventi hanno caratterizzato un'unica motivazione: la dedica della sala al compianto senatore, ministro, presidente del Senato della Repubblica e presidente generale del Cai dottor Giovanni Spagnolli.
Il primo, del presidente generale della SAT ingegnere Luigi Zobele, che ha relazionato con un'ampia documentazione l'impegno oneroso della ristrutturazione del rifugio. Ha elogiato i Gestori, l'Impresa, le Maestranze e la Commissione Rifugi.
Il secondo del vicepresidente generale del CAI Luigi Rava, che ha illustrato con fermezza l'attività del Senatore parlamentare e l'impegno del socio Presidente, additandolo quale I difensore istituzionale del progetto ambientale e primo promotore dell'istituzione dei parchi naturali nell'ambito del CAI (Spagnolli sostenne addirittura il I progetto di Parco Nazionale dell'Adamello-Brenta).
Terzo, l'allocuzione di Giuseppe Leonardi, che di Spagnolli fu il testimone delle due visite al rifugio Mandrón. Eccola per intero.
"Il 13 luglio 1968 è un sabato dell'anno cinquantesimo della fine della Grande Guerra, combattuta durissimamente nel cuore dell'Adamello dai battaglioni Val Baltea ed Aosta e dal battaglione skiatori Cavénto del 4° Raggruppamento Alpini della V Divisione dell'esercito Sabaudo del Regno d'Italia, contro i Reggimenti dei Kaiserjäger e degli Landesschützen dell'esercito imperiale Absburgico d'Austria e Ungheria.
La "Guerra Bianca", così fu chiamata quella combattuta in Adamello, anche dopo cinquant'anni aveva lasciato sulle vette e sugli spalti granitici del massiccio, innumerevoli testimonianze: baracche, camminamenti, proiettili inesplosi, residuati bellici, trincee e perfino un cannone del calibro 149G, sulla forcelletta della Cresta della Croce, ancora puntato contro il caposaldo absburgico del Corno di Cavénto.
La mia generazione molto si interessò per conoscere e capire per quali motivazioni e con quali intendimenti gli strateghi degli opposti schieramenti avevano costretto interi Battaglioni e Reggimenti a scontrarsi a queste quote, in condizioni difficilmente immaginabili, oggi ad ottant'anni di distanza in tempo di pace.
A partire dal 1964 vennero organizzati dei pellegrinaggi annuali. Lunghe cordate con in testa gli Adamellini e gli Adamello-Kämpfer, ossia i combattenti dei due schieramenti un tempo avversari, scarpinavano sulle vedrette, raggiungevano vette, attraversavano i ghiacciai. Fu così che i giovani, come me, nelle soste e nei riposi serali ascoltavano dai Reduci i racconti dei tanti episodi, che acconsentirono poi di tessere la storia delle vicende belliche dei tre lunghi anni di guerra. Una cosa soprattutto capivamo, che i racconti dei sopravvissuti erano intrisi del ricordo struggente di tanti commilitoni caduti, le cui salme erano ancora rinserrate nei crepacci delle vedrette o tumulate nei cimiteri di guerra.
Il pellegrinaggio del 1968 era partito da Temù giovedì 11 luglio ed aveva pernottato al rifugio Garibaldi. Venerdì le colonne avevano raggiunto il rifugio Ai Caduti dell'Adamello al Passo della Lobbia Alta e sabato 13 erano scese al Città di Trento ai Laghi del Mandrón.
Per quel giorno Enzo Franzóni, uno dei tanti capigruppo degli Alpini in congedo di Brescia, aveva programmata una cerimonia al cimiterino austriaco del Mandrón, dopo averlo in precedenza ripulito e restaurato con l'aiuto dei suoi Alpini, dopo avervi piantata una croce in ferro e rimesse in ordine le lapidi ed i cordoli di granito. Al rito della deposizione della corona con gli onori militari, presenziarono: il cappellano Monsignor Elenio Franzóni (di Bologna), medaglia d'oro della ritirata di Russia del 1943, un picchetto in armi comandato da un Ufficiale col grado di capitano degli Alpini del battaglione Tirano, il ministro senatore Giovanni Spagnolli, la guida alpina Liberio Collini ed una folta rappresentanza di alpini in congedo e di alpinisti, convenuti da più province. Enzo Franzóni fece un discorso ispirato ai temi della pace e della fratellanza e ringraziò tutti coloro che avevano prestato la loro opera per il restauro del cimitero.
Dopo la cerimonia salimmo tutti al rifugio Mandrón. Il gestore Teresa Binelli fece gli onori di casa e per l'occasione aveva addobbato la sala con coccarde tricolori ed allestito un pranzo d'onore. In quel giorno nella conca del Mandròn assistemmo ad un abbraccio fraterno fra genti camúne e trentine nel segno della riappacificazione storica degli opposti schieramenti bellici.
Ma per rispettare del tutto il racconto degli avvenimenti di quel giorno, voglio accennare anche ad un episodio accaduto subito dopo la cerimonia ufficiale.
All'alba di quel mattino era salito da Pinzolo al vecchio rifugio del Mandròn, Luciano Binelli figlio di Rodolfo Tisór per affiggere una lapide in marmo bianco a ricordo di Dávide Binelli. Di ritorno dalla cerimonia il Capitano degli Alpini chiese al Binelli cosa stesse murando sulla facciata del rifugio. Il Binelli rispose che stava collocando una lapide in memoria di suo nonno caduto. Al colloquio era presente anche il Cappellano, che propose al Capitano di schierare di nuovo il picchetto perché avrebbe benedetta con gli onori militari anche quella lapide. Il Capitano rifiutò l'invito con questa motivazione:
"Non era un Alpino e non faceva parte dell'esercito italiano!".
Nel momento della disputa stava sopraggiungendo il senatore Spagnolli, il quale, udita la risposta, intervenne prima con una reprimenda nei confronti dell'Ufficiale e poi intimandogli l'ordine di schierare il picchetto e rendere gli onori militari alla memoria di Davide Binelli Kaiserjäger dell'Esercito austro-ungarico, caduto per la Patria proprio sul piazzale del rifugio a seguito di scheggia di granata, sparata dall'arteglieria italiana. Il Senatore invitò poi il Reverendo a procedere con la benedizione della lapide in memoria.
Domenica 14 luglio dal Mandrone le colonne salirono al Passo del Maroccaro e poi discesero al Passo del Tonale dove era stata organizzata una grande adunata con la partecipazione di reparti in armi delle Truppe Alpine del IV Corpo d'Armata con la Fanfara ed il picchetto d'onore e con la partecipazione di reparti in armi di un Reggimento Kaiser Jäger e Stand Schützen invitati espressamente e venuti dal Tirolo e dall'Austria. Al Ministro Spagnolli toccò il compito di rappresentare il Governo italiano e tenere il discorso ufficiale alla presenza della rappresentanza ufficiale del Governo della Repubblica d'Austria.
Due anni dopo, in occasione di un pernottamento al rifugio, il gestore Teresa Binelli mi pregò di farLe una cortesia con queste parole:
- Prova a mandare un invito al senatore Spagnolli, forse viene per la festa degli "Amici del Mandrón" che facciamo come tu sai a settembre. -
Scrivo ed indirizzo la busta al Senato della Repubblica. Dopo pochi giorni il Senatore mi risponde affermativamente e giunge senza scorta al piano di Bédole.
Ero salito al rifugio il sabato. Il mattino della domenica 13 settembre 1970, mi portai fin sotto il Rifugio vecchio e rimasi in attesa dell'arrivo della colonna. La intravvidi quando transitava lungo il tratto del sentiero pensile sopra le acque pendenti. Scesi un poco, raggiunsi la colonna, mi presentai e l'incontro col Senatore fu cordiale e franco. La prima sosta fu dinnanzi alla lapide di Davide Binelli e poi al cimiterino austriaco. Risalita la rampa, giungemmo alla cappelletta dove il missionario Don Walter Collini ed un Sacerdote di Cremona concelebrarono la Messa in ricordo di Livio Binelli e delle Guide dell'Adamello. Erano presenti: l'Adamellino Sperandio Zani di Temù, esploratore nella compagnia skiatori Monte Mandròne comandata dal capitano Natale Calvi, le guide Silvino Cenini, Benedetto Maculotti e Melchiorre Zani ed il gestore Teresa Binelli, col figlio Marco ed il nonno Ottone Dal Fiume, oltre naturalmente a tanti Amici del Mandrón: Silvio Manni, le guide Amanzio, Liberio e Remo Collini e Guido Maturi, Carlo e Ada Cereghini, Franco e Lino Zeni, Fausto e Rita Dalbosco e tanti altri. Dopo la Messa entrammo tutti nel rifugio, dove avvennero i festeggiamenti dell'incontro Valcamonica-Rendéna in un clima festoso. Spagnolli stimava molto Teresa, sua concittadina e socia onoraria della sezione CAI-SAT di Rovereto.
Il cuoco Agostìno aveva predisposto due torte decorate con le scritte: W Spagnolli, W Sperandìo. Ultimato il pranzo, ricordo che misi mille lire nel mio cappello ed annunciai ai presenti che il cuoco sarebbe andato militare con gli Alpini. Raccolsi una cappellata di banconote, gliele diedi e ci fu un applauso generale. La Teresa poi mi ringraziò, perché era stato un bravo dipendente, servizievole ed onesto.
Nel 1984 decede il senatore Giovanni Spagnolli.
Come parlamentare è unanime la convinzione che abbia dato continuità alla politica dei valori, già impersonata dai predecessori parlamentari trentini Enrico Conci, Alcide Degasperi, Giuseppe Ferrandi, Umberto Gelmetti, Renzo Helfer, Angelo Mott e Giuseppe Veronesi. Col suo pragmatismo convinto ed ottimista risparmiò al Trentino, per almeno un decennio, le conseguenze nefaste di un modo pressappochista di fare politica, poi sprofondato nell'irrazionale ideologico, nel quale naufragarono tanti politici disperati e non sopravvissuti.
Come Ufficiale delle Truppe Alpine1) e Alpinista seppe fare emergere una personalità che praticava e promuoveva un'attività, che sui monti si ispirava ed atteggiava ad espressioni della cultura montanara. É ben vero che non aprì nuove vie e non ripetè itinerari estremi lungo le pareti. Ma è altrettanto vero che una volta assunte le responsabilità ai massimi vertici del CAI, compì sforzi volontari e talvolta estremi nella convinzione di comunicare ai Soci alpinisti e non, il significato culturale dell'azione che l'alpinista porta sui monti.
Il 22 settembre 1985, la Sezione del CAI di Vigo Cadore inaugura il bivacco dedicato alla memoria di Giovanni Spagnolli a Cadín Alto Est (m 2.047).
Del compianto senatore, indimenticato presidente generale del CAI dal 1971 al 1979, mi piace riportare quel passo della sua prima relazione da Presidente del 1971, nella quale fra l'altro scrisse:
"Il modo di vivere moderno ha incluso fra gli oggetti di consumo anche le nostre montagne. Esse, infatti, e soprattutto in tempi a noi prossimi, sono sempre più minacciate in due modi: per un verso dall'aggressione da parte delle masse di fruitori e organizzatori del tempo libero che vi hanno individuato ampi, insospettati spazi per le loro evasioni più o meno rilassanti e per proficue speculazioni edilizie e, per un altro verso, dall'abbandono di sedi ed attività da parte dei montanari anch'essi attratti da modelli consumistici".
Un secondo passo invece lo traggo della Sua relazione in occasione dell'assemblea dei delegati tenutasi a Forlì nel 1977. Esso contiene una considerazione ancora attuale, che invita ancor oggi alla riflessione e testimonia il valore della sua lungimiranza:
"Momenti duri non sono mancati neppure nel passato e in genere li abbiamo superati studiando bene, volta per volta, quello che conveniva fare procedendo poi con decisione e con un impegno costante, convinti della bontà della nostra causa fondata sui valori morali che la montagna ci ha sempre dato e continua a darci. L'epoca moderna richiede una collaborazione in équipe sempre più agguerrita, perché si possa trarre da ciascuno di noi quel contributo che, a seconda delle nostre doti naturali, della nostra educazione, della nostra cultura, possiamo dare".
Chiudo con un accenno al Suo lungo percorso parlamentare.
Giovanni Spagnolli, roveretano, laureato in economia e commercio all'Università Bocconi di Milano2), è eletto senatore della Repubblica per la prima volta nella consultazione della seconda legislatura del 7 giugno 1953 nelle liste del partito della Democrazia Cristiana. Viene riconfermato nella terza il 25 maggio 1958; nella quarta il 28 aprile 1963; nella quinta il 19 aprile 1968 e nella sesta l'8 maggio 1972.
Fu ministro della marina mercantile e si disse per celia, perché nella sua Regione c'erano Nave San Rocco e Nave San Felice. Il 4 novembre 1968 è designato a rappresentare il Senato, in occasione del 50° anniversario della fine della I Guerra Mondiale, alla cerimonia dell'alza bandiera sul bastione del castello Malipiéro di Rovereto alla presenza dei familiari dei martiri Damiano Chiesa e Fabio Filzi, nella veste di ministro delle Poste e Telecomunicazioni.
Fu durante l'esercizio di questo ministero che il Senatore, studiò, promosse, fece votare e finanziare dai due rami del Parlamento la legge di attuazione del programma decennale per l'istallazione dei collegamenti telefonici nei rifugi alpini, d'intesa con la società Telve, allora gestore del servizio pubblico. Fu un'iniziativa lungimirante ed anche onerosa, ma che acconsentì ai rifugi sparsi in tutt'Italia di fare un salto di qualità di notevole spessore e l'immagine di efficienza del CAI in Europa procurò negli anni successivi indiscussi vantaggi economici. A dodici anni dalla morte, sia per la caratura rappresentativa del Parlamentare, che per l'impegno del Socio, che con coraggio si è assunto in anni difficili il gravoso impegno della presidenza generale del CAI, ritengo che la Sezione CAI-SAT abbia fatto bene ad intitolare alla Sua memoria la sala del Rifugio "Città di Trento" ai Laghi del Mandrón nel cuore del massiccio dell'Adamello, che tanto teneva in considerazione.
Mi si consentano infine due proposte che mi auguro vengano accettate da tutti i presenti.
La prima: di intitolare quest'incontro I Raduno alpinistico "Giovanni Spagnolli".
La seconda: un invito rivolto a tutti i presenti che nella discesa transiteranno dinnanzi al "Centro glaciologico Julius von Payer", a sostare un istante dinnanzi alla lapide del caduto Kaiserjäger Davide Binelli, accanto alla quale, all'alba di oggi, è stato deposto un mazzo di rose in memoria di tutti i Caduti della Grande Guerra. É un invito a ripetere quanto fatto circa trent'anni fa dal nostro compianto Presidente Generale".
Alle tre relazioni è seguita un'allocuzione commovente del figlio medico Paolo Spagnolli, a nome della Sorella e del Fratello medico missionario-laico in terra d'Africa, impossibilitato ad intervenire.
D'ora in poi chi entra nella sala del rifugio Mandrón può leggere la targhetta posta sulla porta e all'interno ammirare il quadro affisso sulla parete d'occidente, che ritrae il nostro Senatore e Presidente generale.
Talvolta: "I simboli sono spesso più importanti delle dichiarazioni".
Note
1) Corso allievi ufficiali presso la Scuola Alpina d'Aosta, successivamente assegnato al 6° Reggimento Alpini, Battaglione Trento.
2) Solo un Parlamentare Bocconiano, con una solida preparazione derivante da severi studi di economia politica, poteva salvare con una frase di cinque parole (inserita strategicamente e furtivamente nel contesto della legge sulla nazionalizzazione dell'energia elettrica e che nell'estenuante battaglia politica parlamentare passò inosservata) l'inestimabile patrimonio dei Consorzi Elettrici Cooperativi del Trentino, che sono rimasti legati al mondo della Cooperazione e a beneficio della comunità. Solo un consorzio venne dall'Enel nazionalizzato, quello di Pinzolo, ma perché fu strategicamente disciolto.
Sasso dell'aquila
el Rampa
In alcune aree protette e destinate a parco, allarmante e preoccupante è l'impatto che l'arrampicata sportiva su parete provoca là dove si assiste al proliferare di vie protette con spit. Essa può risultare dannosa per biocenosi omogenee, per specie vegetali e per fitocenesi minacciate. Particolarmente dannosa può essere quella praticata su massi, qualora questi siano testimonianza delle antiche glaciazioni, i cosiddetti massi erratici, che conservano infatti molto spesso vegetazione relitta originaria della zona di provenienza del blocco di pietra trasportato dalla forza del ghiacciaio, dunque elemento importante sia sotto il profilo storico-documentario che vegetazionale. Oppure quella su massi rovinati da pareti soprastanti, testimoni di crolli in epoche remote e che contengono relitti di fossili marini.
É il caso del "sass da l'ágola", una masso dalle forme di parallelopipedo che si trova, assieme ad altri, sotto il V Torrione della Corna Rossa, una fascia di pareti verticali costituita dal bordo occidentale dell'altopiano del Grosté e che precipita verso la testata della val Asinella. É ben visibile ad occhio nudo dal "grass" della malga di val Asinella.
Il Sass era stato salito lungo la paretina di 25 m posta in lato nord nel settembre del 1945 dalle guide Bruno Detassis e Natale Vidi e dai due Lancieri (Corpo di occupazione inglese a Campiglio al posto del presidio SS-Gestapo tedesca), che avevano salito la III Torre Lancieri, lungo il cammino di sinistra, aprendo la I via. Per chi voleva cimentarsi lungo un tiro di VI Grado, i primi salitori avevano lasciati infissi anche due chiodi. E ciò poteva bastare. Nossignori. In occasione dei festeggiamenti del 50° di fondazione della Scuola di roccia Graffer, ci fu chi ha pensato bene di spittare il Sass con una ragnatela di dieci percorsi, protetti dall'alto con ancoraggi fissi con due placche, cordino e moschettone come si trattasse di un muro artificiale in palestra o in falesia. Così il valore di una via storica è stato banalizzato e le quattro facce sono state trattate come "res nullius", alla mercé del primo che gli salta in mente di farci sopra quel che gli pare, dilettante o maestro di alpinismo che sia. Credevo che le "Tavole di Courmayeur"1) avessero segnato un punto di equilibrio tra la tesi anarcoide degli ultrà, per i quali "ognuno fà ciò che vuole", e l'opposto estremismo di quanti di spit non vogliono nemmeno sentire parlare. Dopo anni di purgatorio nelle falesie di fondovalle, ora gli ultrà migrano a ranghi compatti verso la Terra Promessa, l'alta montagna, e con l'aiuto del "fallo elettrico" (trapano) disseminano spit su vie e pareti classiche. Poiché nella fattispecie trattasi dell'azione di una guida alpina2) c'é veramente da allarmarsi e preoccuparsi. Della Corna Rossa c'è la parete W, nera, ripulsiva, a strapiombo, lì l'audacia di un nuovo salitore in libera doveva dimostrare quanto valeva!
Sulla terrazza del rifugio ai Brentéi, una guida alpina attiva, a proposito di quanto accaduto sul Sas da l'Agola, mi ha detto che se un cliente gli chiedesse di spittare una qualsiasi parete, lui lo farebbe. Políto!
Note
1) Nelle Tavole del convegno di Courmayeur fra l'altro è contenuto questo principio: l'alpinista è libero di rimpiazzare con spit o chiodi tradizionali i vecchi ancoraggi che non reggono più, di sosta e progressione che siano; ma è condannabile quando snatura le caratteristiche storiche di una salita, perché non può arrogarsi il diritto di trattare le pareti come una "res nullius", dilettante o maestro d'alpinismo che sia.
2) David Jonathan Hall, figlio di Piera Graffer Hall, nipote dell'accademico sestogradista Giorgio Graffer, referenziato dall'APT Campiglio.
Cartoline
dalle Dolomiti di Brenta
di Giovanni Cristini
e Aldo G.B. Rossi
Sotto il modesto e insolito genere letterario della "cartolina", la plaquette è un inno alla bellezza delle montagne - le Dolomiti di Brenta - sulle quali si innescano motivi umani e affettivi (l'inesauribile trama della vita) e a tratti persino un ordito simbolico e metafisico che oltrepassa l'occasione immediata, il lampo stesso della bellezza paesaggistica e dell'emozione lirica.
Dal Rifugio dei XII Apostoli
...Fu al ritorno, scesi giù per la forcella che si affaccia sulla grigia morena dopo la "scala santa", che il cielo si stracciò di lampi e tuoni, ci mise in fuga a balzi, ruscellando la pioggia sotto i piedi, verso lo specchio nero del lago d'Agola. Ferma alle sue radici la foresta di larici e di abeti camminava nel vento, rombava nel frastuono degli scrosci. Poi fu improvviso il silenzio. Di quel cielo in battaglia che sovrasta formiche in fuga è rimasta solo una cartolina rigata dalla pioggia che sgocciola fumando lungo il corpo.Nota
1) Cartoline dalle Dolomiti del Brenta poesia a due voci, Giovanni Cristini, Aldo G.B. Rossi, Istituto Propaganda libraria, Milano 1985
Redazionale
I - Uomo dell'anno di Rendéna: Paolo Sartori
Il capo della squadra mobile di Trento, Paolo Sartori è stato promosso "Commissario capo" per meriti straordinari, con provvedimento firmato venerdì 28 giugno dal ministro degli Interni, Giorgio Napolitano. Si è trattato di un avanzamento di carriera straordinario, che premia l'espletamento di indagini ed interventi di sicurezza pubblica, che comportarono anche il pericolo della vita. Additare alla pubblica opinione un Poliziotto che si è distinto per il suo impegno sociale nell'ambito della Provincia di Trento, ma anche a livelli nazionale ed internazionale all'insegna del servizio dell'onestà e del bene collettivo, è per la Redazione un onore. Lo facciamo perché questo atteggiamento di grande forza etica e passione civile che ha caratterizzato il suo lavoro, costituisce certamente un valido esempio, soprattutto per i giovani, di coerenza e di fiducia nella cultura della democrazia, dell'impegno e del progresso, che oggi, come non mai, deve permeare il nostro presente per rafforzare la società ad assumere comportamenti più responsabili socialmente e più solidi economicamente.
Additarlo nella sua verde età è una scelta che abbiamo fatta con entusiasmo, perché l'omaggio ci piace accordarlo sulla fiducia, ancor prima della maturità.
Sartori, 34 anni, nato in provincia di Mantova con origini a Caderzóne, coniugato, è responsabile della squadra mobile dal maggio del 1992 e si è occupato negli ultimi anni di numerose inchieste relative a fenomeni di traffico di stupefacenti e di collusioni e corruzioni amministrative. Legato alla Rendéna vi trascorre in serenità il tempo libero.
La Redazione si associa a tutti coloro che di Lui hanno stima e fiducia per congratularsi e complimentarsi ed augurare un ulteriore proficuo impegno. Dell'Uomo dell'anno pubblichiamo qui di seguito le Sue risposte a nostre domande specifiche, ringraziandoLo per la cortese disponibilità.
Nome: Paolo Cognome: Sartori Nato: a Mantova il 19 Febbraio 1962. Ceppo di famiglia: dei Donati e Rancéi. Famiglia: coniugato in attesa di un figlio. Titolo di studio: laurea in giurisprudenza presso l'Università di Bologna. Qualifica professionale: Commissario Capo della Polizia di Stato.Quale rapporto con l'alpinismo: "Pur ritenendomi un amante della montagna, le mie esperienze alpinistiche sono limitate ad escursioni nei Gruppi Adamello, Brenta e Presanella, oltre naturalmente ai monti di Caderzóne, ove abito: tutte escursioni a livello di passeggiate o poco più".
Esprima quale voto e con quale motivazione aderirebbe ad un referendum popolare in Rendéna - Parco sì, Parco no -: "Devo sinceramente ammettere di non conoscere a sufficienza le motivazioni che stanno alla base dell'una o dell'altra scelta, in merito alla questione Parco; in linea generale, ritengo che un Parco naturale possa senz'altro ritenersi un'iniziativa positiva in termini turistici ed ambientali, purché venga gestito direttamente dalle popolazioni interessate per territorio, e purché non limiti in modo ottuso l'utilizzo della montagna. Con queste motivazioni voterei: Parco sì".
Che cosa rappresentano, dopo il lavoro, lo ore trascorse in valle: "Non appena il lavoro me lo consente (cosa che purtroppo si verifica sempre meno), vengo a Caderzóne, dove ho gli amici e dove posso riposarmi, anche solo per qualche ora".
Segnali un'iniziativa concreta e specifica per un turismo più qualificato in Rendéna : "Rispondendo a questa domanda voglio rifarmi a quanto dichiarato poc'anzi: quella del Parco naturale potrebbe senz'altro essere un'ottima iniziativa turistica, dalla quale potrebbero in seguito nascerne altre ad essa collegate, purché non si tramuti unicamente in una serie di sterili ed ottusi vincoli di utilizzo della montagna che, alla fine, potrebbero rivelarsi controproducenti".
Che pensa dell'opinione di quegli intellettuali che ritengono Caderzóne la "Vicinia" che ha saputo in Valle armonizzare e vivere al meglio: agricoltura, allevamento, ambiente, artigianato, cultura e turismo: "Ritengo che questa definizione sia senz'altro confacente a quanto è stato fatto negli ultimi anni in Paese, grazie alla Popolazione, alle Amministrazioni comunali, che si sono succedute ed allo spirito di collaborazione con cui ogni decisione di pubblico rilievo è stata affrontata e risolta a livello politico".
Che ricordo ha della guida alpina Clemente Maffei Guerét ideatore dei Rampagaröi: "Avendolo conosciuto personalmente, non posso che parlarne in termini positivi; non mi permetto di dare valutazioni tecniche su ciò che Lui ha fatto per l'alpinismo, in quanto non ne sono all'altezza; tuttavia, dal punto di vista umano, Lo ricordo come persona squisita, entusiasta della "Sue" montagne ed in grado di trasmettere agli altri quel suo entusiasmo con assoluta facilità".
Nel 1997 ricorrerà l'80° di benedizione della cappelletta al Caré, voluta dal viennese generale dei Kaiserjäger Wilhelm Echt von Eléda, per ricordare il sacrificio della I Compagnia Kaiserjäger sul Corno di Cavénto, comandata dal figlio tenente Felix caduto il 15 giugno 1917. All'interno si legge la scritta: "Zum Andenken an die Soldaten die dem Vaterland mit Gut und Blut gedient haben" (Al ricordo dei Soldati che coi beni e la vita hanno servito la Patria). Il periodico Rendéna uscirà in edizione speciale col racconto di una lunga storia. Mercoledì 16 Luglio, giorno dedicato alla Beata Vergine del Carmine, giusti ottant'anni, sarà promossa una radunata alpinistica per coloro che vorranno riconoscersi nella motivazione "Lungo sentieri di Pace - Do Troes de Pesc - Friedenswege Entlang - Caré-Cavénto". Impegni professionali permettendo e contando sulla Sua condivisione all'idea, promette con anticipo di onorare quest'incontro con la Sua presenza: "Sì lo prometto".
II - Berge Musik and Tand gehen durch alle Land
Monti musica e cianfrusaglie girano per tutti i Paesi
Questo distico in lingua etnica si adatta allo spirito dei "Suoni delle Dolomiti" ascoltati sul terrazzo del rifugio Alimonta, posto ai piedi della vedretta dei Sfulmeni, dove i maestri Mario Brunello e Ivano Battistón hanno azzardato un concerto di violoncello e fisarmonica, accostando armonie di tre secoli dei musicisti Marais, Bach e Piazzolla. Appoggiato ad un masso e rapito in estasi, alzai gli occhi e intravvidi una cordata staccarsi dal filo di cresta della Torre di Brenta e attraversare il cordolo che immette sulla Bocca dei Armi.
Anche sui gradoni montonati, risultato della potente azione erosiva della vedretta di Monte Nero, posti a settentrione del rifugio dedicato al pittore della natura e della luce, Giovanni Segantini, posto ai piedi della vedretta d'Amola, l'arpista Cristina Bianchi ed il flautista Mario Foléna hanno interpretato armonie barocche nella semplice libertà naturale dell'interpretazione, attorniati da una cerchia di montanari, seduti sull'erba senza la minima struttura. Montagna e musica, lungo le vie della natura e dell'arte: Berge Musik un Tand mischiati assieme nell'eco della corona di crode impassibili, avvolte da nuvole in fuga.
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Marzo 1997
© 1997 Editrice Rendena-Tione
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