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G. D., Sans Titre (tableau-chiffon), 1964

 

 

 

GERARD DESCHAMPS

 

Per quanto sconcertante possa apparire, la vicenda dell’arte in Francia, coté  avant-garde, viene presentata come la storia di un continuo ricominciamento. Di una sorta di ripresa ininterrotta che sembra, peraltro, incidere più nelle formulazioni critiche di quanto in concreto non si riscontri nelle opere prodotte.

Punto di partenza di queste ripetute oscillazioni pendolari è (o sarebbe) Dada: premessa al Surrealismo, anche per il coinvolgimento personale dei protagonisti; anti-arte che – facendo, secondo Michel Tapié, tabula rasa delle pratiche espressive antecedenti – diveniva preludio all’art autre e in generale all’astrattismo lirico; trait-d’union, grazie alla sua considerazione delle “contingenze della natura e del caso, … con le investigazioni dell’art brut e le svariate esperienze sugli effetti della materia, da Dubuffet a Tapiés” (Restany).

Differente è la posizione assunta al riguardo da gruppi e correnti come il Lettrismo e l’Internazionale Situazionista, che elaborano direttamente la propria piattaforma teorica: per il movimento isouiano Dada costituisce, sotto più d’un profilo, un obiettivo polemico mentre Debord l’interpreta come l’incarnazione storica di “un aspetto di negazione” che “dovrà ritrovarsi in ogni posizione costruttiva ulteriore sino a che non saranno rovesciate con la forza le condizioni sociali che impongono la riedizione di sovrastrutture decomposte”.


Al momento in cui entra in scena il Nouveau Réalisme l’esperienza dadaista si configura dunque per la critica militante (e per gli storici che ne saranno influenzati) nei termini d’un azzeramento del quadro artistico da cui prendere le mosse per una creazione radicalmente altra; mentre le nuove avanguardie paiono assumerla più come termine antitetico da superare che come prolégomène à tout art futur. 

Del tutto analogo appare, ad una prima disamina, l’atteggiamento del raggruppamento novorealista.  La prima definizione della nuova “singolarità collettiva”, relativamente generica (“Che cos’è il Nouveau Réalisme: un nuovo avvicinarsi percettivo al reale”) non fornisce indicazioni in proposito; in concreto, però, il tratto che unisce quelle che Pierre Restany indica come le “tre famiglie” novorealiste sembra individuabile nella comune pratica di “appropriazione” del reale. Tale pratica, certamente influenzata dal ready-made duchampiano, sussiste sia nel lavoro di Yves Klein, che pure attinge una dimensione immateriale connessa ad una forma di “intuizione” o di “estremismo cosmico”; sia in Tinguely e César, pervasi dalla “volontà d’integrare la tecnica industriale alla metamorfosi del quotidiano”, l’uno con macchine realizzate con materiali di recupero, l’altro con le “compressioni” di carrozzerie d’auto; sia infine negli affichistes Hains, Villeglé, Dufrêne (tutti provenienti da esperienze di stampo lettrista), e Rotella, votati con i loro décollages a “recuperare poeticamente le forme più correnti di esplosione dei linguaggi visivi organizzati: manifesti, pubblicità, mass media”.  Ancor più diretta la relazione per quel che concerne Arman, le cui “accumulazioni” di rifiuti e di altri materiali risentono dell’infuenza di Schwitters, così come può dirsi, in una prima fase, per Niki de Saint-Phalle e per Daniel Spoerri con i tableaux-pièges, assemblaggi realizzati incollando su pannelli le suppellettili ed i resti di colazioni. O, ancora, per Martial Raysse, autore di vetrinette Prisunic, in cui espone prodotti in vendita nei supermercati e per Christo, i cui empaquetages, destinati ad estendersi a complesse impresse monumentali o su scala territoriale, di oggetti rimandano ad un famoso precedente di Man Ray.

Ma - al di là di questo e del paravento sociologico innalzato da Pierre Restany nella presentazione della prima mostra dei novorealisti alla Galleria Apollinaire di Milano nel maggio 1960 e nel manifesto “A 40° au-dessus de Dada” - è la polemica condotta contro il New Dada americano, impersonato da Rauschenberg, Johns, Stankiewicz e Chamberlain, a marcare l’effettivo scarto dalle istanze dadaiste.

“In realtà” scrive Restany “i neo-dadaisti, al contrario dei nouveaux réalistes, non hanno tirato l’estrema conseguenza della nozione di ready-made. Non hanno trasceso il fatto dada e hanno integrato l’oggetto trovato con delle composizioni estetiche, con delle strutture formali tratte da vocabolari espressionisti e cubisti anteriori”.

In effetti la poetica del Nouveau Réalisme assume l’oggetto in termini più diretti, investendolo di “un potenziale d’espressività assoluta e generale”. Così che mentre il New Dada americano evolverà verso la Pop Art, una “pittura modernista” applicata a soggetti isolati nella produzione e nella comunicazione di massa, i novorealisti rimarranno invece sostanzialmente fedeli, anche dopo la dispersione del gruppo, alle loro posizioni.

Una messa a fuoco ante litteram delle aspirazioni più radicali insite nel Nouveau Réalisme può venir rintracciata ne “Les réalités collectives”, un testo pubblicato da Villeglé nella rivista ultralettrista “Grâmmes” a seguito della mostra di manifesti lacerati tenuta con Raymond Hains presso la Galerie Colette Allendy nel 1957. Vi si proclama la “non premeditazione creatrice d’arte degna dei musei”, contrapponendo la “lacerazione anonima” all’esercizio, passato ormai in accademia, del collage. 

Indubbiamente questa presa di partito mantiene qualcosa di ambivalente, dato che il problema della scelta persiste, così come la ricontestualizzazione dell’oggetto nello spazio della galleria o del museo. Ma l’idea di base rimane comunque lontana da una trasmutazione dell’oggetto banale in opera d’arte: si tratta piuttosto di far irrompere brani di realtà nell’universo separato dell’arte. Come ha scritto Catherine Millet: “i nouveaux réalistes non si sono accontentati di essere i semplici riutilizzatori del ready-made, ma andando al di là dell’appropriazione dell’oggetto e dell’aneddoto di cui questo è portatore sono riusciti a fare in modo che l’oggetto stesso generi uno spazio alla sua misura, uno spazio originale capace di trasformare profondamente i nostri codici percettivi”.

 

E’ in questa prospettiva che il lavoro di Gerard Deschamps si delinea come novorealista ancor prima che la sua partecipazione venisse sancita dalla presenza – su invito di Spoerri - all’esposizione del gruppo alla Galerie Samlaren di Stoccolma, nel 1961. Prima di partire per il servizio militare in Algeria, durato ventisette mesi, aveva infatti conosciuto Hains e Villeglé e tenuto alla Galerie Colette Allendy una personale intitolata “Tableaux en chiffon et plissages” che preludono ai lavori realizzati con biancheria intima femminile a partire dal 1960.

L’esposizione di questi “rilievi” a Milano in quello stesso anno gli attirano le proteste dei benpensanti. L’anno successivo un’opera del genere, esposta nella vetrina di una galleria del capoluogo lombardo lungo il percorso della processione del Corpus Domini, viene sequestrata su richiesta dell’arcivescovo, Cardinal Montini, che doveva poco dopo venir eletto Pontefice, guadagnandogli il titolo di “artista più vietato d’Europa”.

Ancora nel 1961 prede parte a rassegne collettive (oltre quella già ricordata, l’“Exposition du luxe” a Berna e “Nouvelle aventure de l’objet” a Parigi). Ma è il 1962 l’anno della sua definitiva affermazione, con una serie di mostre tenute alla Galerie J di Jeanine Goldschmidt, all’epoca moglie di Restany (“Plastiques et chiffons”; “Gerard Deschamps et la rose de la vie”) ed alla Galerie Ursula Girardon (“Bâches de signalation, plaques et blindages”). In quest’ultima sede l’artista esponeva una serie di teloni colorati con vernici fluorescenti, utilizzati dall’esercito americano come segnali, che da un lato si presentavano come monocromi anonimi (laddove Klein personalizzava il blu come International Klein Blue) e dall’altro – benché montate su pannelli di legno - sembrano precorrere le esperienze dei membri di Support-Surface sulla tela libera. Accanto ad essi una serie di piastre utilizzate in precedenza come bersagli nelle esercitazioni di tiro, o per saggiare la resistenza delle corazze dei blindati, scalfite o perforate dalle pallottole. Due sequenze di opere “dure”, in cui Restany scopre tuttavia un gusto sottile per “le belle materie”,  “lavorate nella loro essenza”, che avranno un seguito nel ’64 con l’esposizione a Venezia, alla Galleria del Leone, delle “Irisations”, realizzate nuovamente con teloni rivestiti di una fitta maglia metallica, impiegati negli aeroporti per isolare i motori dei reattori. Contrappuntate dagli andamenti morbidi degli “Chiffons japonaises” (1962), scampoli di tessuto assemblati con nodi e spilli, in una sovrabbondanza di colori, di pieghe e di sovrapposizioni che hanno portato, per naturale evoluzione, prima alle barrette militari ingigantite esposte alla Galleria dell’Elefante a Venezia nel 1966 e quindi alle panoplie d’oggetti (costumi coloratissimi, asciugamani, corde da saltare, slip, cravatte, pantofole, palette di plastica e così via), collezioni da supermercato che gettano una luce ironica sull’epoca presente, in cui si assiste alla mutazione dall’Homo Sapiens Sapiens all’Homo Accessoirus.


Benchè sia stato il più giovane dei nouveaux réalistes, Deschamps è anche il più legato alla vicenda del gruppo. Non solo ha ricusato di partecipare alle manifestazioni milanesi del 1970, culminate nel “banchetto funebre” del Nouveau Réalisme allestito da Spoerri con piatti riferiti alla “specialità artistica” di ciascun autore (Zuppa lettrista per Dufrêne, accumulazione di anguille in gelatina per Arman ecc.), ma nega, in una lettera aperta indirizzata nel luglio 1982 al sindaco di Parigi la fine di quell’esperienza: “Con tutta evidenza” – scrive – “il Nouveau Réalisme è più una filosofia dell’arte che uno stile e, come tale, la sua datazione finale è illusoria e priva d’interesse”. E alla domanda se si consideri ancora novorealista - postagli da Hélène Kelmachter in un’intervista pubblicata nel catalogo dell’antologica tenuta nel 1998 alla Fondation Cartier di Parigi – risponde: “Certamente. Il Nouveau Réalisme è innanzitutto ciò che fa il conservatore d’un museo: prende un oggetto antico e lo mette in una vetrina. Noi facciamo press’a poco la stessa cosa con oggetti più recenti”.

 

Sandro Ricaldone  (maggio 2002)

 



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