[Estratto della mia tesi di laurea, sostenuta nel marzo 1997 presso la facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'università di Genova. Per ulteriori informazioni potete mettervi in contatto con me]

Debora Vogel Debora Vogel (1902-1942), scrittrice, poetessa e critica d'arte polacca attiva intorno agli anni '30, nata a Leopoli (oggi in Ucraina) dove morì uccisa dai nazisti. Era di origine ebraica e scriveva in polacco e in yiddish. Akacje kwitna (Le acacie in fiore), il suo libro più importante, risale al 1935.

Debora Vogel - Le acacie in fiore

LE AZALEE NEI NEGOZI DI FIORI - 1933

1: Le vie ed il cielo

Quel giorno le vie riflettevano il cielo. Il cielo era caldo e grigio. Sempre, nei giorni dal cielo grigio, le vie sono estenuate e dolci e, come mari, grigie e calde.

Quel giorno tutti coloro che si trovavano nelle vie si struggevano di desiderio per un incontro inatteso. Come già una volta, un tempo.

Sul finire del giorno, goffa ed inspiegabile, calò sulla gente la nostalgia di un romanzo lungo, particolareggiato e, perché no?, persino antiquato, con un'accurata descrizione delle sorti del protagonista.

Un simile romanzo avrebbe senz'altro dovuto iniziare con le parole "...quel giorno... in un grigio giorno dalle vie come dolci mari grigi

(segue la data...)

un signore in cappotto chiaro e bombetta nera percorreva la via L. e faceva il bilancio della propria vita fino a quel momento..."

La narrazione avrebbe dovuto essere condotta in quello stile e tutto, nel romanzo sentimentale che ora si desiderava in modo improvviso ed urgente, avrebbe dovuto prendere spunto da un tema di questo genere.

Ecco di cosa si trattava: del corso che può prendere la vita, di ciò che può accadere nel corso di una comune vita e di come la sorte degli uomini sorga dal nulla: dall'aria azzurrina, dalle cose toccate, dall'appiccicosa noia, da un incontro banale...

E, questione ancora irrisolta nonostante i tanti anni ormai trascorsi, iniziò a farsi pressante una domanda molto antica: "come vivere?" Inoltre era banale come un tempo ed incurante della propria banalità come allora, la prima volta.

Nelle vie grigie come il mare intanto il nuovo romanzo sentimentale della vita comune era cominciato davvero, inavvertito ancora da molti.

Le vie di quel romanzo sapevano di elasticità, di vetro e di passi.

Sapevano anche di altre, insolite cose: della durezza e della rotondità degli oggetti.

In quelle vie lo spazio, massa appiccicosa e sfrenata, si solidificava in strane cose: in rotondità e piattezze di vario genere, prevalentemente bianche e grigie.

Cortine di spazio bianco e pieno compaiono in quella narrazione e sono trattate come avvenimenti; vi appaiono muri, densi come la nostalgia e come la calura. Muri: ancor più bianchi che nella realtà, nei giorni fatti di cielo grigio e di attesa, bianchi di malinconia, duramente bianchi.

Anche le cose qui sono come superfici sferiche, quadrangolari, rettangolari (nella nomenclatura abituale dette vestiti, mobili, strade asfaltate e persone).

Le persone poi in quel romanzo vivono di cose come una piattezza e sfericità bianca, grigia, colorata, le attendono come una straordinaria avventura.

Il primo capitolo di quel romanzo sentimentale iniziava più o meno così:

"Nel cielo grigio si levavano muri bianchi come raso, muri che sembravano di vernice e di carta. Per le vie camminavano delle persone, figure tratte e messe insieme da un romanzo sentimentale che si chiama vita".

2: Polvere nella strada

Ecco cosa accadde, proprio in quel tempo (era un mezzogiorno di aprile, il primo dei mesi dalle foglie appiccicose): accanto al bordo del marciapiede bianco vorticava una manciata di polvere grigio-giallina e si spargeva nell'aria che ancora era pallida, molto in basso, un mezzo metro sopra l'asfalto del marciapiede.

Quell'episodio, così irrilevante uno o due anni prima, sembrava confermare che tutto era tornato al solito posto e che avrebbe seguito il suo corso abituale, secondo regole prestabilite.

Fu certo questo il motivo per cui quell'episodio assunse ad un tratto tanta importanza per le persone e per questo suscitava tenerezza: perché in loro c'erano cose che non avrebbero mai più potuto tornare.

Lo stesso episodio diede inizio a tutta una serie di strani casi, in cui tutto andava in modo completamente differente dalla norma ed era importante qualcosa di diverso dal solito.

Allora ebbe inizio una serie di fatti banali che si ripetevano ogni anno: le calure appiccicose di vernice e l'andirivieni per le strade; i "giardini delle strade serali" color del cobalto e la nostalgia per gli oggetti ruvidi; le cose: cose diverse, tonde, rettangolari, quadrate; cose dure, appiccicose, elastiche; gli incontri banali, simili a metalli odorosi.

Infine: la questione della "felicità perduta" (questo fenomeno, noto ed ormai abituale nelle cronache della vita, viene chiamato proprio così). Ogni anno della vita ha un progetto di felicità e dei fallimenti.

Dal mucchietto di polvere giallo-grigia si sprigionava un aroma di calura e di possibilità ancora ignote.

Ormai non c'era più tempo da perdere.

3: Le case che hanno un ritmo

Il rumore e il movimento compatto delle cose non ancora pronte, mai usate, sono una prova esauriente del fatto che la vita è colma di significato, che è necessaria, che non c'è tempo da perdere.

E così ovunque, negli spazi grigi e neutri delle fabbriche di panno e vetro, di carta e manufatti di metallo, si produce la materia calda ed elastica della vita stessa; e la dolcezza stillante a gocce dall'anima umana fin dalle sette del grigio mattino, il cui nome corrente è "energia", è come una perfetta macchina per trasformare in durezza e in avvenimenti l'appiccicosa noia del mondo e la sua lentezza.

Da un po' di tempo in qua, ora in una fabbrica, ora nell'altra, calava un bianco silenzio. All'inizio era un blocco pesante ed appiccicoso, dopo un certo lasso di tempo era come una poltiglia di carta, triste e goffa.

In quella primavera dell'anno 1933, di nuovo, in città si fermò più di una dozzina di fabbriche. Nelle strade si vedevano così uomini che avevano troppo tempo e che avevano ormai dimenticato l'esperienza della stanchezza.

Sulle panchine delle vie sedevano, in mezzodì che già sbocciavano appiccicosi; sulle panchine dei grandi viali sedevano molto presto, fin dalle sette, quando il mattino era ancora umido; e ancora nelle serate blu, tutte fiumi di elettricità; sopra di loro, trionfale, un'insegna pubblicitaria della "FORD" e del dentifricio "ODOL".

Davanti ai vetri dei grandi magazzini sostavano, davanti ad abiti da donna che avevano nomi dal suono delizioso, attraenti con la loro linea elegante: Jean Patou e Molyneux; davanti a file di cravatte, elegantissime cravatte marca "Record".

All'inizio le gambe non volevano camminare, ma poi andavano senza più fermarsi.

Nelle vie, sulle panchine sedevano persone che guardavano in basso, verso il cemento grigio del marciapiede; sulle panchine sedevano persone che non sentivano la stanchezza, che non vedevano gli alberi prorompenti in appiccicose foglioline.

Nelle fabbriche intanto le macchine stavano immobili, tristi come persone noiose, come manufatti di carta e al tempo stesso piatte ed inespressive: nostalgie indefinite; persone che, già dalle sette del mattino, non sanno dove andare.

Così passava il primo mese di boccioli appiccicosi e dall'atmosfera celeste, leggera, niente affatto impegnativa.

4: Primavera e cappelliere

Intanto al mattino la primavera ondeggiava di cortine di un verde carico, che, come si scopriva ad un esame più ravvicinato, era tagliato a foglie palmate di ippocastano e a foglie di sambuco, umili, "simili a cuori umani".

Un mare di verde allora ondeggiava davanti ai vetri delle case e dei tram, si gonfiava verso mezzogiorno come un mare dalle acque grigie per placarsi con l'arrivo del pomeriggio, verso sera solidificandosi quasi in un blocco di verde.

Così trascorse un altro mese di boccioli appiccicosi e di aria azzurrina.

Allora fu deciso - anche se ora, come sempre, non c'era un vero motivo né una persona per cui farlo - fu deciso di "vivere" e tutti comprendevano quella parola: "vivere".

Si iniziarono i preparativi per i giorni in cui la calura fiorisce come un fiore di vetro rotondo e rigido, come ci si prepara ad un incontro a lungo atteso.

La questione del verde veniva considerata alla stregua di un incontro con la vita stessa, con un grande evento della vita, che questa volta, come al solito in quella stagione, era rappresentato da goffe calure di vernice e, come sempre, da possibilità inaudite.

L'evento prese poi una piega incredibilmente banale, come sempre, vale a dire:

tutti i marciapiedi e le strade furono d'un tratto ricoperti dal cartone grigio chiaro e dalla carta delle scatole e dei sacchetti per cappelli e per abiti da donna, simili a petali rosa di ippocastano che ricoprano le grigie vie del mese di giugno.

Per i marciapiedi e le aiuole si susseguivano intanto torsi femminili: torsi classici senz'occhi, dalle acconciature ondulate, senz'occhi per le onde di verde carnoso e per i mucchi di cose diverse, insolite e delicate che avvenivano intorno a loro e che sarebbero passate in breve tempo (nei torsi classici, nei busti delle vetrine dei parrucchieri e in quelli femminili per le strade le cavità cieche degli occhi si sforzano di intravedere la vita, tese verso l'ignoto brivido della felicità, verso possibili felicità a loro ignote).

Si faceva ciò che era possibile: era un arrangement dell'accoglienza preparata alla vita. E inoltre sarebbe risultato evidente che per i torsi di porcellana con i seni non v'è modo migliore di accogliere la vita che in abiti nuovi, mai portati.

Quell'anno si portavano stoffe spesse e consistenti e come colori erano di moda un'opaca e contemplativa terra di Siena e calde tinte cromate. In essi si manifestavano ancora le dolciastre nostalgie e le inquietudini delle materie prime e della vita.

In quell'occasione si scoprì poi che le stoffe nuove, ancora elastiche ed intatte, hanno una funzione inspiegabile, ma di cui non si può dubitare: aiutano a dimenticare le cose finite, per cui ormai non c'è più nulla da fare; possono così aiutare a vivere.

5: Mari grigi e conchiglie-cuori

Sulla riva del grigio mare Baltico verdeggiano i pioppi sulla sabbia gialla. Sulla riva del mare grigio vi sono migliaia di conchiglie, rigurgitate dall'acqua che, grigia, ondeggia di vita.

Nel mare grigio delle vie estive si sprigiona d'un tratto il profumo opprimente delle erbe marine. E' un aroma che porta inquietudine nella via, come possibilità improvvise e nascoste. E' già estate.

Allora le persone comprendono che una vita che abbia rinunciato all' "attesa" (il nome dato all'elemento di pesantezza goffa e appiccicosa nell'uomo) è triste e sterile: è una conchiglia rigurgitata dal mare opprimente della nostalgia.

Allora le persone, ancora una volta, desiderano "provare nostalgia", in modo assolutamente goffo, come un tempo.

D'un tratto iniziano a cadere per le strade le grandi foglie dei fallimenti e non c'è più alcun dubbio: nella vita accade di rimandare cose che non possono più ritornare e poi nulla è più come la prima volta.

In un giorno come quello, grigio come il greve mar Baltico nella sbiadita luce giallina, non era possibile volere "proprio ciò che accadeva".

In un giorno come quello, quando le vie sono come mari e rispecchiano un cielo grigio, niente può consolare il rimpianto per le cose finite.

Nella vita però ci sono tanti giorni, tante persone... Bisogna dimenticare: nella vita c'è sempre qualcosa che ci aspetta ancora.

6: Giorni di pioggia

Poi venne una serie di giorni di pioggia. Secondo il calendario dovevano venire quei giorni, fatti di una vernice gialla che si appiccica alle dita e all'anima e dall'incomprensibile ampiezza, in cui tutto ha un senso inaspettato.

Intanto un grigiore severo e ottuso assottigliava i giorni e ancora una volta ci si doveva appoggiare alla parete sgargiante dei manifesti fingendo di attendere qualcuno con cui si avesse un appuntamento, anche se in realtà non c'era nessuno da aspettare.

Ma in alcuni pomeriggi e nell'ora del crepuscolo si sapeva con certezza addirittura assoluta, come in una canzonetta d'altri tempi, già da tanto fuori moda: "Come ciliegie va colta la felicità, se no col tempo l'incanto se ne va..."

Erano parole che ricordavano senza dubbio un odore rassegnato e colloso di panni consunti fino in fondo e di certe vecchie situazioni imbarazzanti che fino in fondo si vorrebbero scordare, perché con il loro ricordo è impossibile vivere.

In quei giorni di pioggia del 1933 si tornò a riconoscere che quello che allora accadeva alla gente, un fato inesorabile, faceva parte della vita. Ma come accade di solito per le cose più familiari, che ormai sono quasi banali, anche quella cosa sembrava inverosimilmente distante dalla vita, quasi inventata.

Allora si notò anche che persino l'immagine della vita eroica, associata da qualche tempo al movimento ed alla forma rettangolare, aveva una goccia di malinconia nel grigio prolungamento delle sue linee e nella loro triste ripetizione; forse alla vita è necessaria una goccia di malinconia?

Tutte le storie dei "cuori spezzati", il "vagar per le vie che non vogliono più nulla", l' "attesa della vita" conquistarono così possibilità inaspettate. Sembrava che tutto ciò facesse parte della vita.

In quei giorni grigi di pioggia ogni sera nel bar "Femina" si suonava, per un mese intero, quel tango che diceva... "O tutto, o niente"...

7: Le azalee nei negozi di fiori

Nella città dal grigiore azzurrino, che ha cinque milioni di gambe, ci sono anche dei negozi con fiori enormi, piatti, tondeggianti.

Le azalee nei negozi di fiori del Boulevard Montparnasse di Parigi sono perfette. Hanno il colore del salmone e dell'arancia e presentano in cento sfumature i colori di un pesce-salmone lasciato marinare molto a lungo e di uno sferico frutto-arancia.

Alle azalee del viale Montparnasse non servono più i profumi accattivanti e contemplativi dei fiori comuni. Ormai possono essere fatte come di un'inodora lamina di raso: tutta l'anima l'hanno messa in quel colore incomprensibile, pieno di tristi esperienze come una lamina metallica.

Il fatto avviene nell'estate del 1933, contemporaneamente agli avvenimenti che sono stati descritti.

Attraverso lo stormire del viale Montparnasse passa improvvisamente una tristezza immensa, il mare di lamiera della malinconia. Per vie ignote, si fa strada dal negozio delle azalee.

E' un giorno grigio e dolce, che fa parte di tutta una serie. Le persone cercano oggetti solidi per le loro mani, oppure pareti grigie e pareti di manifesti colorati. Sono in cerca di avvenimenti definiti ed inequivocabili; ciò che accade al negozio delle azalee in sostanza è molto simile ad una cosa che da tempo ci è nota, molto comune, ma per lungo tempo non si ricorda da dove ci venga la familiarità con questa sensazione di peso, ottusa ed incolore. Fino a che, improvvisamente, non si è consapevoli che essa giunge sempre, ogni volta che nella nostra vita una cosa qualunque ha avuto termine e non ne può accadere più nulla.

Davanti a quel negozio di azalee, che sono fatte di una lamina dura e malinconica e che sembrano aver ormai sperimentato tutti i profumi possibili, la vita diventa ad un tratto come un percorso lungo e grigio dove ogni cosa è ormai sistemata, dove tutto ciò che doveva venire è già stato.

E ad un tratto sono intollerabili le cose perfette, i dolci incontri e le eleganti azalee arancioni.

E ad un tratto si desidera, insensatamente, che ci siano delle stanze irregolari, stanze troppo grandi, ingombre di oggetti e di persone; che ci siano "destini perduti", "amori mancati", "amori infelici".

Allora si gonfia e prolifica la gramigna della nostalgia: nostalgia per le cose colme di ruvida solitudine, nostalgia per le infiammate foglie di bardana del disordine.

E a grottesco motto del triviale romanzo della vita prende forma questa frase:

"...tra le cose perfette non c'è più posto per la vita..." Da qui viene l'ottusa tristezza, da qui la sensazione di abbandono che si accompagna ad ogni cosa bella. E per questo agli uomini è necessaria una goccia di grezzo disordine e di ruvido abbandono nelle cose...

E pensare che a condurre a queste frasi estreme sono state le futili azalee fatte di triste lamiera!

Ma ormai è sempre così: sono le cose più insignificanti a ricordare le questioni più importanti della vita.

8: I soldati marciano

L'estate, che finalmente era arrivata, si svolgeva intanto in un modo insolito, contrastante con le regole e con il calendario.

Era arrivata e trascorreva senza gialle calure, senza mosche né farfalle. Non aveva né le profonde quinte d'afa, in cui improvvisamente tutto è ancora da fare, né il cristallino silenzio, in cui tutto è sempre perduto. Ciononostante aveva luogo e trascorreva.

Lo si poteva intuire dagli alberi il cui verde diveniva più scuro, poi dagli ippocastani, che ormai qua e là ingiallivano.

(Su una simile estate non si può fare in alcun modo affidamento; le foglie si fanno più scure e ingialliscono, l'una dopo l'altra, i "cuori" - che parola antiquata - sono come recipienti traboccanti di cose perdute).

Sembrava che da qualche parte si fosse perduto il conto della vita, indecisa ed ottusa come quell'estate.

E anche se alcune settimane prima, come ogni anno nella stagione delle foglie appiccicose, si era deciso di "vivere", sembrava che adesso quella decisione fosse stata completamente dimenticata. Le persone non volevano più nulla, facevano tutto senza convinzione e senza impegnarsi a fondo, come se fossero state incerte su cosa fosse opportuno fare in un determinato momento e sulle conseguenze che avrebbe avuto.

Ma infine un giorno tutti furono presi da una terribile urgenza di rimettersi in pari con tutto ciò che faceva parte della vita.

La si esprimeva proprio in questi termini: "rimettersi in pari con la vita".

Infine, in quell'atmosfera satura di tensioni catastrofiche si verificò un avvenimento che dimostrava senz'ombra di dubbio che il mondo, nonostante tutto, si trovava al solito posto, previsto e ben fondato e che "tornare alla vita" era sempre possibile.

Ecco com'era quell'avvenimento:

nelle vie marciano i soldati. Marciano disposti in grandi rettangoli. Portano divise di un grigio azzurrino, il grigio di un giorno caldo senza sole. Sulle divise azzurrine dei soldati ecco quattro bottoni, perfettamente lucidati. Bottoni esattamente rotondi: quattro.

Gli uomini-soldato stanno verticali, sull'attenti. Ora si alza la gamba sinistra; ora la gamba destra; poi ognuna torna ancora singolarmente sull'asfalto, tracciando un rigido angolo retto con la via. E ad un tratto sembra che con quelle gambe essi pensino, sembra che con le loro gambe assorte nella marcia contemplino qualcosa di piatto ed angoloso: forse l'evento del cammino di quei grandi rettangoli azzurrini di uniformi militari con i bottoni lucenti.

In un luogo deciso in precedenza, ogni giorno lo stesso, dal rettangolo azzurrino scaturiva uno spesso zampillo di voci: di solito si cantava un tango, eseguito al secco ritmo di una marcia.

Durante quell'estate quel sillogismo di passi sembrava assolutamente inutile e senza scopo, come ogni altro avvenimento. Nessuno dunque sembrava nemmeno stupirsi del fatto che lo si potesse considerare con tutta la rassegnazione che era tipica della vita, come una cosa accettata ed ovvia.

Non sappiamo comunque cosa possa diventare importante nella vita, non sappiamo che ogni cosa può essere importante in modo diverso da quello che le è proprio: ed ecco, quell'estate l'azzurro rettangolo dei soldati in marcia aiutava a "tornare alla vita", tanto era simile alla vita stessa.

L'uno dopo l'altro fiorirono i gelsomini, l'acacia, infine il tiglio.

E di nuovo, in certi momenti, c'era "troppo poca vita", come quando la felicità ne stabilisce la misura e impone di accumulare "vita".

Ecco cosa fece l'azzurrino rettangolo di soldati: in quell'estate senza mosche e senza calure esso interpretava il ruolo della felicità.

9: L'oro portato dalle navi

Fu proprio così: tutto ciò di cui si è parlato finora avveniva nell'estate del 1933, e proprio così.

Era tutto autentico e importante quanto la vita stessa per le persone, anche se gli avvenimenti che colmavano il mondo appartenevano a un'altra serie e a un altro ordine.

Si trattava di questioni legate ai destini della materia. Propriamente si trattava di regolare la questione della goffa materia, condannata dal proprio destino alla convivenza con gli uomini: non lo si poteva definire altrimenti. Di tanto in tanto il mondo è invaso dalla gramigna del caos: strane, cieche passioni e necessità assillano allora gli uomini, cambiare e rielaborare, ordinare la propria vita in altro modo. Adesso cominciava appunto uno di questi periodi.

Ma in un primo momento l'avvenimento si manifestò così:

sotto un portone Biedermeier scrostato, al numero 28 di via Skarbkowska, stanno in attesa i disoccupati. Ogni primo e quindicesimo del mese, in ordine alfabetico, salgono le scale, consumate fino a divenire concave. Poi continuano ad aspettare. Vogliono aspettare che passi quel tempo che non conta, che li separa dall'inizio della "vita".

Intanto i sovrani del carbone, della grassa nafta e dei fiammiferi non sanno più cosa fare con la materia appiccicosa e con l'oro, con la vita e con la felicità. Al mondo c'erano troppe cose per loro: non si sapeva che cosa fare con l'inutile folla dei prodotti.

Allora avviene anche un fatto che illustra ottimamente come qualcosa possa avere un'importanza molto diversa dal solito e ugualmente fare parte della vita, come già si è visto nel caso delle azalee parigine e dei soldati in marcia.

Ecco che in quel tempo si venne a scoprire, non si sa come, che nel mondo non c'era abbastanza oro: già da molto tempo la crescita del suo prezioso stelo era stata soverchiata dalla gramigna e da sordidi cumuli di oggetti da acquistare. Allora l'America, che è come un paesaggio concentrato e saturo di compatto equilibrio, cominciò a riprendersi il suo oro dall'oziosa e lasciva, molle e patetica Europa.

Dai porti dell'Europa salparono le navi "Berengaria", "Liverpool", "Georgica" e una nave dei folli che, addirittura, si chiamava "Manhattan".

Il rosso metallo solca l'oceano in duecentocinquanta casse rozze, che sanno di catrame. Nessuno presta attenzione a questo trasporto anonimo e fantastico, nessuno riflette sul fatto che l'oro si baratta con gli oggetti: abiti, scarpe, patate...

In tutta questa faccenda può invece risultare importante, per esempio, il paesaggio di oro rosso e fantastico cobalto marino, incontestabilmente colmo di significato, anche se inesplicabile.

Ma la gente non lo vede ancora. Dentro ai disoccupati fermi al portone di via Skarbkowska 28 rimane, appiccicoso, il sedimento dei giorni in cui dalla materia della vita, ascetica e opulenta, insipida e maleodorante ricavavano perle per donne estranee, profumate di "Tramonto Parigino" in un punto imprecisato dell'abito.

Sono ancora impregnati di quel piatto odore di colla che è tipico della noia e dell'amarezza, rigida come la foglia della bardana. Non avvertono ancora la felicità che si trova ovunque vi siano oggetti duri, che sanno di metallo e di movimento.

Evidentemente essa non è ancora importante nell'epopea progettata per la vita e attende il momento in cui tutto il resto sarà sistemato. Ma fin d'ora si può notare una cosa che accadrà tra breve e che già si trova nell'aria appiccicosa di quella sosta sotto il portone dell'ufficio disoccupazione, che lievita in quella sosta vuota e separata dal resto del mondo.

Presto arriverà, manifestandosi in una divorante nostalgia per il rumore grigio, per la goffa dolcezza delle cose piatte, per la pienezza compatta delle cose rotonde e per la mite malinconia degli oggetti rettangolari.

Allora non ci sarà più tempo per chiedersi "per cosa" o "per chi".

10: L'estate secondo il calendario

Ma finalmente giunse l'estate prevista dal calendario e si poté ritornare alla successione e all'ordine di vita abituali. Non era più necessario fare attenzione a non cadere in un fatale succedersi di avvenimenti, smarrito da una dimensione estranea, da un tempo marginale che non si ferma in nessun luogo e che non è simile a se stesso.

Nel piano connaturato a quei giorni c'è la tristezza di tutto ciò che può accadere e di tutto ciò che fa parte della vita; sono giorni tutti fatti di una lamina triste e consapevole e di goffa vernice. E la vita che giungeva adesso era fatta proprio così.

Adesso non erano più separati tra loro: l'eterna goffaggine umana di lamiera e le calure di vernice appiccicosa, le cose finite e le acacie in fiore, il vagabondare per le piazze rotonde e l'ingiallire degli alberi.

Le foglie verdi e carnose, le masse di colori odorosi e le cose perdute adesso erano di nuovo se stesse e tutto questo poteva essere nuovamente compreso in una denominazione unica, presa da una terminologia insolita, ancora inutilizzata: "giorni di abiti, di mani e di fiori metallici e rigidi". I metalli, la vernice, le calure, il vagare per strade e piazze hanno tutti la stessa rigidità, goffa e dolce. E l'estate è tutta di metalli gialli e grigi.

Le persone poi, per qualche motivo, erano felici; sembrava proprio trattarsi di ciò che chiamiamo "felicità".

Solamente le persone di cui si diceva che fossero "infrante dalla vita" non riuscivano nemmeno a provare tristezza. A loro accadeva proprio una delle storie incomprensibili e insensate di cui è fatta la vita normale.

11: "Cuori ormai per sempre infranti"

Ecco come stavano allora le cose con la vita: anche se non tutti lo sapevano, essa era orientata sulla figura del rettangolo, modello eroico della vita e di grigie avventure. Era come una lunga superficie colma di monotonia e di movimenti concentrati, compatti, piena di una dolce malinconia.

Durante quell'estate si iniziò tuttavia a tollerare un elemento di circolarità, che prendeva la forma di un morbido color carne, di nostalgia, di attesa, manifestandosi in un desiderio di avvenimenti insensati.

Improvvisamente è evidente che per vivere è necessaria la felicità. Al tempo stesso si scopre che sono moltissime le persone dai "cuori infranti".

Camminano per le strade. Toccano mani estranee e foglie.

Se si tratta di donne, cambiano cappellini e abiti di diverse stoffe, di jersey, di raso, di colori opprimenti, di un fresco nero.

Eppure... "non possono vivere". Proprio così: non possono vivere. A separarle dalla vita è soltanto una cosa insignificante, che avrebbe dovuto accadere ma non si è verificata. Ed era proprio quella che avrebbe dovuto dare la goccia di felicità che è sempre necessaria per vivere.

Durante quell'estate si iniziò nuovamente a prendere in considerazione le persone che dicevano di avere il cuore infranto ormai per sempre:

come se anche loro, proprio come noi tutti, avessero dovuto servire unicamente come esempio ed illustrazione di una tra le tante possibilità della vita.

Anche i banali cuori trafitti da frecce, i cuori che appaiono sui muri rosa pallido di Utrillo e su tutti i muri nascosti della città appartengono alla vita, evidentemente, come i passi, la felicità e le foglie cromate marca "Pelikan" dei mesi di ottobre e novembre.

12: Monti e fiumi come nel 1926

La splendida avventura con i monti contemplativi di cobalto e con i fiumi di freddo metallo d'acqua può verificarsi ancora, ma soltanto quando si è di nuovo (dopo qualche anno, di nuovo...) "ormai per sempre infranti".

Allora i monti nella nebbia azzurra possono essere ancora come prugne, ricordando una slavata nostalgia dell'uomo; ma nella nebbia grigia i monti sono come mele e di conseguenza li si deve paragonare a uomini abbandonati nelle vie pomeridiane della città. Invece i fiumi sono come dure determinazioni, non gocce incerte ed indecise di tinta celeste.

Allora, non si sa come, capita questa avventura: di nuovo si fa parte della "vita" e si può "dimenticare".

Accade forse perché i monti stanno al loro posto e i fiumi scorrono per migliaia di anni, ma ciononostante "vivono"? O forse perché sono come dure, tragiche determinazioni? O perché non vogliono niente di più, dato che hanno tutto: aria azzurrina, nebbie grigie?

Risultò così che si doveva riconsiderare quello che spesso, in passato, le persone definitivamente sconfitte dalla vita avevano detto della "fuga sui monti".

E quella cosa che prima aveva sempre saputo di appiccicosa disperazione divenne verosimile: quella legata all'immagine delle persone che ci portano via la vita, di coloro che non sanno come impiegare il tempo, incessantemente occupati da se stessi, eternamente insoddisfatti.

La questione più importante divennero adesso le persone felici. Solo loro "vivono".

13: "Vita"

Quando poi il concetto di "felicità", da tempo ritirato dalla circolazione, fu risolto in questo modo, venne il turno di quello più difficile, benché tutti siano in grado di capirlo: la morbida parola "vita".

Cominciò così: il giorno aveva già l'aroma cristallino di ottobre. Le foglie erano gialle. Il cielo caldo e azzurro. Le vie grigie.

Dal bar "Femina", via Karmelicka numero trentasette, giungeva il ritornello di un tango:

"... il nostro amore a chi importa, solo a te e a me; il nostro amore a chi fa male, se soffriamo io e te..."

In quel momento una signora in un tailleur di morbido drap e alcuni altri passanti in bombetta rigida e cappotto chiaro ricordarono senza una ragione evidente che "la vita va vissuta, finché lo si può fare", che tutti hanno una vita irrisolta, anni perduti e possibilità irrealizzate.

Proprio in questi termini si sintetizzava tutto ciò che accadeva alle persone, in quel giorno cristallino di ottobre: "bisogna vivere la vita".

E quello fu l'inizio del lungo e difficile trattato sulla vita che ad un tratto era nuovamente necessario, per quanto potesse sembrare che certe cose fossero ormai note e sistemate da tempo.

Il trattato era formulato in uno stile ordinario e generico, come quello di cui si servono di solito i sognatori, le persone che "aspirano alla perfezione" e che desiderano perfezionarsi per eguagliare nelle "esperienze" altri, privilegiati nella gerarchia delle anime e nelle sue intricate avventure: persone che, con grande pathos e con gesto vibrante di commozione, scoprono cose già scoperte da tempo e risolte.

(Nelle circostanze in cui viviamo si tratta principalmente di parrucchieri, manicure, camerieri: persone condannate a subire le vite altrui dall'altra parte della vetrina).

Il risultato era che quello stile faceva risaltare la dozzinalità della vita, che immancabilmente era accompagnata, come se essa fosse il suo segno, da una speranza tenue come il percalle in qualcosa che "doveva avvenire".

Ma andò così: al momento quel fatto non provocava né amarezza né inutile pathos, poiché in quel tempo ci si era abituati a considerare la goffaggine e la dolcezza di lamiera degli avvenimenti alla stregua del vero e proprio verificarsi della vita.

14: Trattato sulla vita: capitolo primo

Basta uscire in strada nell'ambrato crepuscolo ottobrino: qualunque cosa ci accada, tra le quattro e le cinque del pomeriggio la vita è sempre "infranta".

Nel "Salon de beauté" di via Karmelicka venticinque la manicure sembra fatta di cera, porta un'acconciatura alta come una bambola del 1924; il parrucchiere ha un taglio ondulato, dall'intenso profumo mille-fleurs; la proprietaria del salone invece è ancora come la fotografia molto ritoccata, appesa alla parete, di una dama del '900 dalla vita molto attillata, con un colletto fissato su stecche di balena, ultima moda del Novecento.

Era proprio l'ora dell'ambrato e dolce crepuscolo di ottobre quando la proprietaria del Salone di Bellezza di via Karmelicka si rivolse ad un commesso, senza mezzi termini e davanti a tutti i clienti, con una domanda assurda: "Ma io, per che cosa devo davvero vivere?"

In quell'istante, quasi in risposta, sotto l'abat-jour lilla si dondolò e si mosse la manicure di cera, porgendo ad una signora in abito bleu la coppetta d'alluminio con l'acqua per le unghie.

Poi il parrucchiere, chiassoso e creativo, si dedicò all'ondulazione di un'acconciatura dopo l'altra, rimirando accuratamente e con tenerezza lo stile di ogni singola ciocca di capelli, una ciocca ondulata ogni tre centimetri.

Per quanto riguarda l'apprendista più giovane, quella invece iniziò - con una fretta inspiegabile, producendo un chiasso assolutamente ingiustificato - a mettere ordine, allineando le scatolette di henné nero e bruno.

Fu così che nell'ordinario quadretto con la dama e le rigide file di scatole di henné si fece sentire il fatto che al mondo c'è una ragione di vivere. In un simile ambiente, in tali circostanze, poteva forse ciò verificarsi altrimenti?

E cominciava sempre così: con la domanda "per che cosa vivere?" iniziavano ogni singola vita e il trattato autunnale sulla vita.

15: Secondo capitolo del trattato sulla vita

"Tuttavia, vale la pena di vivere".

Così iniziava sempre il secondo capitolo del trattato e della vita.

Di solito è estate: l'appiccicosa, larga e spessa materia del mondo è tutta un fermento di presagi, aromi e potenzialità. E' divisa e sfaccettata in masse di vario genere: alcune sono grosse, flaccide e sgraziate, altre tese ed elastiche come l'attesa; ci sono insignificanti ed anonimi fogli di lamina metallica, goffi frammenti cartacei dell'ampia materia della vita, sicura di sé, quasi oscena nella sua eccessiva sicurezza.

Tutto ciò entra in contorni carezzevoli, che hanno un'anima: corpi e seni, malerbe, foglie, muri, bottiglie e avvenimenti. E allora c'è una ragione per vivere al mondo.

Per i viali dei parchi cittadini camminano allora pesanti torsi dai seni rotondi: costringono le falde e i larghi strati sconnessi del loro corpo in busti di broccato color carne e albicocca. Hanno troppo corpo. Il corpo ha il profumo delle larghe foglie estive e spumeggia di possibilità.

Si girano allora a guardarli le vecchie signore dagli abiti cascanti, che sono flosci soprattutto vicino al seno; con esse le persone che "non possono vivere".

Allora si può essere certi che tutti i passanti pensano la stessa cosa: che la vita passa irrimediabilmente come questo giorno di miele, unico, colmo di potenzialità e di migliaia di presagi.

In questo momento c'è sempre una siccità bronzea; il mondo è una sfera di calura metallica e ribollente e vale la pena di vivere.

16: Terza proposizione del trattato sulla vita

Il mese di ottobre, che è tutto di rame ed estratto di grigiore, sembra essere particolarmente adatto ai trattati sulla vita. Attira ed adesca nel grigio territorio delle idee, così simile alle sue quinte grigie e contemplative.

Solo su questo sfondo è possibile e comprensibile, solo in queste circostanze ammissibile la banale proposizione del trattato: "per attraversare la vita".

(La vita può essere come una via estranea in una città da tempo ben nota. Le case di quella via possono avere, ad esempio, una facciata liscia e quadrata: sono case contemplative. Gli angoli sono arrotondati leggermente, in modo quasi vellutato. Sulle facciate laterali si trovano anche dei balconi rotondi, del tutto inattesi ed inutilmente bassi, praticamente sul marciapiede: steli emisferici che spuntano dal tronco della parete. Accanto può improvvisamente esserci una casa grigia, ruvida, alta, con inquilini di specie indefinita).

A quest'ora già grigia del pomeriggio di ottobre per la via Karmelicka passa un falegname di mobili di lusso della via Gró decka, Sz.: va verso la via Teatyñ ska, dove riceverà un'ordinazione per la stanza di una signora di lacca color cobalto.

Qualche passo più avanti procede una signora che indossa un tailleur bruno opaco dalla linea perfetta, di una stoffa spessa e colma di placida contemplatività: porta un cappellino di feltro floscio, proprio dello stesso colore dell'abito.

La signora dall'abito color bronzo opaco ha un'andatura fluida, si dondola un po' sulle gambe che piega dolcemente: ad ogni passo, immersa nei propri pensieri, si fonde con una delle lastre grigie del selciato.

Si vede che è uscita di casa con l'idea di una lunga passeggiata a caso per le vie, così come capita.

La via Karmelicka di Leopoli è sempre colma di una dolcezza di colori pastello e sembra essere fatta apposta per le passeggiate senza meta. Lungo uno dei suoi lati, quasi per tutta la sua estensione, con il cielo grigio oppure azzurro si fonde senz'altro il muro uniforme, bianco e placido, anch'esso uno scampolo di cielo grigio, libero dalle facciate che hanno molteplici anime vibranti, facciate che introducono nella via un'atmosfera di indecisione, portando fino al caos assoluto che abitualmente la accompagna.

Il cammino può essere ritenuto senza meta, quando ne esaminiamo il fenomeno dal punto di vista del disbrigo di specifiche faccende della vita. In realtà però ha sempre una meta, indubbiamente, benché non sempre si possa riconoscerne senza esitazioni la dignità di una necessità vitale accettata, ammessa e stabilita.

In questo caso non si tratta forse, per esempio, di "dimenticare"? Dimenticare, supponiamo, cose irreparabili, il cui ricordo, come un fiume, come un'incommensurabile passione, invade in ogni circostanza, alla sola vista del muro bianco o degli ippocastani di cromo?

La signora dal tailleur bruno opaco è deliziosa: la sua pelle è come una buccia bronzea tesa su una rosea albicocca e ha splendidi occhi castani. In lei si fanno sentire - grazie alla sentimentale via Karmelicka - le modeste necessità e le pretese di un'anima sempre desiderosa di "dimenticare". E' l'ora del crepuscolo di miele ed è come se ormai non si potesse più continuare a vivere.

La via Karmelicka è quasi del tutto priva del traffico di automobili e carrozze: non essendo un'arteria di comunicazione che colleghi centri vitali tra sé distanti, è una via che si adatta agli stanchi e ai delusi. Le sue rare automobili hanno una clientela fissa: donne che si dirigono alla clinica ostetrica della via Kurkowa, donne che impazziscono di incomprensibile e mascherato entusiasmo al pensiero che tra poche ore ormai saranno madri.

La signora in cappotto chiaro sotto gli ippocastani getta sguardi ad ogni autocarrozza che si avvicina. Sul suo viso si deposita una lieve polvere di tristezza e di dolcezza ed è tutta come una sgualcita foglia autunnale.

A quell'ora la via ha ancora qualche passante dal passo veloce e distratto. E' un'andatura che non dà alcuna possibilità, che non permette di servirsi degli specifici contenuti della via in cui i corpi e gli abiti dei passanti emanano elasticità e qualcosa di simile al senso della vita. Quelle poche persone evidentemente non vogliono nient'altro che guadagnare il più in fretta possibile la lunghezza della strada: in quell'ora pomeridiana si svolge ancora il rigido capitolo del lavoro o il ritorno a casa dall'ufficio.

Dal bar "Femina" di via Karmelicka trentasette arriva però il ritornello del tango suonato con accanimento per tutto il mese di ottobre e dice "O tutto, o niente"...

Allora i passanti trovano dentro di sé interi giacimenti di esperienze, che non si sa da dove vengano e che fanno da commento a quella fondamentale saggezza della vita: "O niente ... o tutto".

In quella formula, espressa questa volta nel testo del tango, non vi sono però allusioni all'ottusa vegetazione dell'anima, che è come la bardana: bisogna escluderne anche il goloso consumarsi degli avvenimenti e dei destini e l'atteggiamento di "attesa del destino". Questa nomenclatura assolutamente inadatta, superata dalla storia e dagli eventi, nella sua insufficienza ricorda ancora quel tempo della vita in cui, per orientarsi, ci si serviva di idee come, ad esempio, l' "attesa" o la "rassegnazione".

Al tempo stesso quella frase indica qualcosa di assolutamente diverso: nientemeno che la "terza" ed ultima proposizione sulla vita, la formula che in altre circostanze suona così: "attraversare la vita".

Non si può più evitare ormai che questa frase si ripeta nel ritornello della canzone popolare. Ognuno sente del resto che anche in essa si intende la vita nel modo più serio, uniforme in ogni circostanza, sia pure nelle ordinarie pretese degli stati d'animo ...

Giungiamo così alla fine del trattato autunnale sulla vita. E' sempre la fine di ottobre: le foglie color ruggine e gialle sanno di vernice fresca e della malinconia delle cose terminate.

Ecco come dovrebbe suonare il commento a questa frase:

Quando un uomo mette tutta la passione della sua vita in cose che ha scelto da sé, è raro che trovi ciò che chiamiamo felicità. Allora può essere "infranto", quando non succede ciò che dovrebbe succedere, oppure "non avere mai abbastanza della vita", quando succede tutto quello che può succedere.

Via Karmelicka. Il lungo tramonto del pomeriggio ottobrino riempie d'inattese volte e di colori convessi, un poco tristi, quel realistico commento alla vita sempre imprevedibile, saturando di dolcezza e di significati il piatto paesaggio di idee con cui termina un altro anno.

Il crepuscolo era come è sempre in ottobre a quell'ora. Color pastello e grigio, pieno di presentimenti inesplicabili era quel crepuscolo, mentre dagli ippocastani, dai muri e dai volti la tristezza calava in larghe foglie sgualcite.

Ma oggi non si prendeva in considerazione il primo strato della sera, quello sentimentale. La sera mostrava oggi come un secondo strato della sua sostanza: vedute inspiegabili in questa stagione e nell'ora del crepuscolo azzurro, su cui si accumulavano cose ruvide, aromi compatti e metallici, l'anonimo odore del cammino, degli oggetti, degli abiti non ancora indossati.

Le vie erano pervase da un acuto odore di creta e da presentimenti di cose grezze e ripugnanti come erbacce, che avrebbero dovuto dare l'inconcepibile felicità.

17: Sere di ottobre

Nelle aiuole rotonde delle vie e dei marciapiedi crescono intanto gli ippocastani; soltanto ora li si nota.

Sono già rossi e giallo caldo e quasi coprono il celeste e il grigio da cui lo spazio ottobrino è modellato. Ora soltanto li si nota: sono mucchi di calda tinta cromata.

L'angolo dei "Bastioni del Governatore" è arrotondato. Andiamo avanti: ecco l'angolo tra le vie Karmelicka e Ruska. Proprio là ora stormiscono masse piatte, cartacee, fatte di rame ondulato e di cromo caldo: gli ippocastani.

In serate come queste qualunque casa sembra essere piatta e in un certo senso ascetica. Le vie invece sono come sale fantastiche ed inaspettate, dai soffitti a volta, colme dell'elasticità dei corpi in movimento e dei significati inesplicabili che nascono sempre dagli incontri.

In quel pomeriggio di miele nella fabbrica di manufatti di metallo "Gentleman" a Lodz esplose una caldaia, "causando la morte di più di una dozzina di persone" (formula con cui abitualmente un fatto simile viene riportato dai giornali). E indubbiamente nel mondo si verificavano cose più importanti di quella serata, capaci di cambiare la vita stessa. Tuttavia quegli ippocastani riducono l'uomo a un brandello di dolore, sgualcito dal crepuscolo e dal profumo del grigiore come una foglia gialla.

In serate simili non restava altro che percorrere diverse volte l'arco dolce del marciapiede grigio con l'ippocastano giallo. L'arco del marciapiede era come una cosa che passava irrevocabilmente, che andava vissuta come la vita stessa, come il crepuscolo grigio con le lanterne gialle.

Era un avvenimento miracoloso ed inestimabile, come un incontro dal significato oscuro.

Quando infine si tornava alle stanze da noi abitate, si tentava di comprendere quell'avvenimento incomprensibile, che può riempire tutta una sera della vita e allora quel processo, in modo del tutto inaspettato, prendeva la forma di questa frase:

gli ippocastani erano caldi di giallo. Le vie, come velluti fatti di grigi opachi e ambre. Gli angoli dei marciapiedi erano delicatamente arrotondati.

Non si sapeva dire niente di più di quello, proprio quello, con quegli angoli.

Così passa inosservata la storia di uno degli avvenimenti più colorati di tutto l'anno.

18: Si intraprende la vita dall'inizio

Passa intanto l'ottobre ed arriva il trasparente mese di novembre. Un silenzio appiccicoso e pungente come un'erba cattiva continua ad incombere sulle fabbriche. I giornali invece sono pieni di articoli sugli ulteriori licenziamenti.

Alla gente vengono tolti allora l'odore dolciastro del percalle e quello morbido e lieve della tela, il vetro freddo al tatto e la triste nafta appiccicosa.

Allora la gente viene privata dello spazio grande ed elastico, viene lasciata in uno spazio abbandonato, piatto come una buccia di patata.

Nel frattempo i giornali pubblicano sempre più spesso gli annunci delle cliniche ostetriche: i corpi delle donne sono come gli alberi e preferiscono partorire d'autunno.

Così inizia una nuova serie della vita. Come ogni anno in quel tempo e come al solito, è colma di cose la cui incomprensibile importanza riempie il tempo, benché non si possa dire in cosa essa consista.

In effetti la vita viene ripresa esattamente nel punto in cui si era fermata alcuni mesi prima, all'inizio della gialla estate metallica, quando - come al solito in quella stagione - si interrompe il controllo sul destino e le persone si aspettano qualcuna di quelle cose e questioni pronte, che sembrano essere conservate sempre in una certa quantità e tenute a nostra disposizione dalla vita.

In quella ripresa del destino interrotto - come se nel frattempo non fosse accaduto nulla - finì l'anno accreditato con la data del 1933.

19: Il panorama piatto della vita

Tra il mese di novembre e la primavera, che ondeggia di possibilità, di oblio e di verde marca "PELIKAN" ci sono ancora tre mesi di piatte quinte di bianco.

Questi tre mesi non possono nemmeno essere presi in considerazione, piatti ed inespressivi come sono, del tutto privi di prospettiva, privi del grande spazio delle cose abbandonate e della sferica profondità dei presagi e delle potenzialità.

In questo paesaggio non ci sono e già quasi mancano alla gente le foglie barocche degli alberi, non sono le foglie di bardana delle follie umane a regolare la vita.

Questa strana veduta della pausa nella vita non promette più nulla. Accade esattamente il contrario: le cose una volta avviate ed iniziate stanno immobili dentro di noi, lievitanti, in fermentazione. Si può dunque chiudere già ora la cronaca del periodo che trattiamo.

Fu un anno normale, quello, in cui si rinnovarono - come se nella vita non ci fosse niente di più importante - tutte le storie banali di ogni anno: le foglie di verde ondeggiante e l'attesa, le calure di vernice e il dolce vagabondare, gli ammassi rosati degli ippocastani in fiore e la "delusione". Ogni anno ha un suo progetto di felicità e ciò che è stato trascurato si innesta, come il più normale degli avvenimenti, nel corso abituale del tempo, nella serie delle avventure cui appartengono le vie popolate di gente e il cammino.

Ma dove ci troviamo adesso, a metà del mese di novembre, il mondo è al culmine della sua perfezione: è come una monotona marcia militare, scintillante di un milione di bottoni lucenti.

Lo scenario della stagione si addice ora perfettamente alla perfezione delle cose monotone (questo grigiore delle vie e del cielo si ripete due volte l'anno: alla metà di novembre, come adesso, e più o meno tra la fine di aprile e gli inizi di maggio, quando sull'asfalto appare la prima polvere).

Intanto, a gocce di foglie (terra rossa marca "Pelikan"), scende la tristezza. E' una tristezza incomprensibile quella che improvvisamente scopriamo nel perfetto rettangolo in armonia con la vita.

La conclusione definitiva del trattato sulla vita era che l'uomo è un vaso per la tristezza che sembra essere predestinata e necessaria alla vita, e che tutto dev'essere proprio così. Quella tristezza adesso era dura e metallica quanto un tempo era stata delicata e dirompente. Anche adesso dunque, come sempre, tutto terminava con la frase: "vale comunque la pena di vivere".

Il trattato finiva proprio in questo modo banale: vale la pena di vivere per il solo frastuono della vita; non c'è rimedio alla vita.

Conosciamo però l'aroma e il senso di felicità delle vie illuminate, piene di conversazioni e di gambe in movimento, dei cantieri, da cui si diffonde l'odore grezzo della calce irritante, della creta ottusa e della lamiera, dei negozi con le loro rigide cataste regolari di panno mite o di goffo percalle e di tutti quei luoghi in cui gli oggetti si accumulano in grandi quantità.

In tutti i luoghi in cui gli oggetti si raccolgono a mucchi e a folle si sente il profumo della vita, elastico, persistente, dirompente, che non è simile a nient'altro. Contiene un atomo indissolubile di tristezza.

20: Commenti

Intanto il mese di novembre va avanti.

La parte restante delle esperienze, dei tentativi di vita e delle delusioni che è stata messa in moto dal grigio paesaggio novembrino sfocia in due ulteriori commenti alla vita. Nello stile essi ricordano le proposizioni concrete dei sistemi scritti in forma geometrica, che non necessitano di alcuno sfondo: non si sa in quali circostanze verranno pronunciate, né da chi.

Ecco il primo commento:

senza alcun criterio stanno le cose l'una accanto all'altra, come nella cronaca che è stata presentata: foglie e tentativi di vita, felicità e gocce dolciastre di materia greggia, vagabondare senza meta e passione per il colore grigio e per i contorni definitivi.

Dolcemente, uniformemente la testura degli avvenimenti riempie la vita.

Sono proprio i pesi e le testure dell'incomprensibile materiale della vita ciò che noi chiamiamo "oggetti ed esperienze". La pubblicità dell' "Odol" diviene qui continuazione della fioritura delle acacie.

La materia greggia e appiccicosa degli avvenimenti ha i suoi duri segreti. Coloro che hanno direttamente a che fare con la sordida materia della vita conoscono la via che porta ai colori.

"Bisogna conoscere i segreti nascosti della materia". Così suona il primo commento alla vita.

21: Secondo commento

Questo non è ancora il romanzo il cui desiderio improvviso e dolce ci ha assalito allora, proprio all'inizio dell'anno, in un giorno dal cielo grigio e dalle vie simili a mari e cieli grigi.

Ma in ogni futuro romanzo sentimentale la vita verrà considerata più o meno così: come una cronaca cui tutto appartiene, nella quale né l'intreccio né ciò che dovrà accadere in seguito possono mai manifestarsi.

Per questa cronaca non ci sono avvenimenti che possano essere considerati più importanti degli altri: tutto è ugualmente importante per essa e necessario, perché tutto fa parte della vita.

La cronaca non mette in evidenza né gli angoli acuti dei destini tragici, né i blocchi di rassegnazione. Qui tutto avviene in successione, continuativamente, senz'alcuna gerarchia tra gli avvenimenti. Ecco il perché della monotonia di ogni cronaca, il perché di questo ripetersi a volte intollerabile.

La vita è, come la cronaca, un blocco modesto e anonimo.

Solo ad un esame più ravvicinato è possibile dividere l'appiccicosa ed informe massa della vita in destini individuali e in singole questioni, come si divide in singoli steli e foglie il blocco ondeggiante del verde di giugno.

Il destino può essere interrotto in un punto qualsiasi per poi venir ripreso nuovamente, così come la cronaca dell'anno, interrotta nel mese di novembre, che è fatto di una lamina di rame triste e fantastica "come la vita stessa".

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